Con la legge di stabilità, il governo Renzi vuole varare un’operazione ambiziosa. Non sottovalutiamola. Da un lato si tratta di una legge dal chiaro sapore elettorale. Una lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese. Vere e proprie midterm elections in salsa italiana. Appuntamento dagli esiti non scontati per Renzi, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali. A dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele.

Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus. Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.

Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una «rivoluzione copernicana». A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.

Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.

Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.

Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel «mezzo di comunicazione», di quel «sottosistema» autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.