Qual è il nostro sguardo sulle guerre, in quest’epoca di moltiplicazione delle immagini, di produzione e diffusione «virale» delle notizie sui social network e nei video? Davvero le immagini sono ormai troppe e funzionano come un rumore di fondo che non penetra più le coscienze? O forse molte guerre contemporanee non vengono nemmeno percepite, perché di esse non si danno più immagini o si propongono solo visioni anestetizzate e standardizzate? E in che modo l’arte può testimoniare il rimosso delle guerre e delle ingiustizie?
I saggi raccolti nel libro Le immagini delle guerre contemporanee (a cura di Maurizio Guerri, Meltemi, pp. 443, € 28,00) non offrono risposte, ma scandagliano in profondità – dalla Grande Guerra fino al presente – l’universo del visibile legato ai conflitti armati. Frutto di un convegno promosso nel 2015 dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi e dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (entrambi di Milano), il volume raccoglie i testi di venti studiosi, ed è diviso in tre parti. La prima – «Ereditare le immagini delle guerre mondiali» – si concentra sulla Prima e sulla Seconda guerra mondiale come anticipazioni della genealogia della violenza contemporanea e del modo di rappresentarla; «Le arti come testimonianze e comprensione dei conflitti» analizza le diverse «forme» (fotografia, pittura, letteratura, cinema) capaci di attivare memorie e riflessioni; nella terza parte infine – «Pensare le guerre con gli occhi (e con le sue protesi)» – ci si chiede come i media contemporanei, ma anche le armi basate su un’aumentata e inumana capacità di visione (dai droni ai sistemi militari di visione notturna), contribuiscano alle modalità di conduzione dei conflitti.
Progressiva sparizione
La maggior parte dei saggi, più che concentrarsi sulla spettacolarizzazione voyeuristica delle immagini di violenza, evidenziano la loro scomparsa e soprattutto il loro uso uniforme e asettico prevalente tra gli organi d’informazione; sottolineano che la guerra delle immagini si basa sulla progressiva sparizione di corpi straziati e di morti nel corso di imprese belliche che vogliono appunto autorappresentarsi come ipertecnologiche, chirurgiche, quasi avvincenti videogiochi.
Ricordiamo che la guerra del Vietnam – ripresa in diretta da tanti fotoreporter indipendenti – aveva evidenziato la potenza delle immagini, capaci di scuotere le coscienze collettive e di veicolare messaggi spesso non voluti: nonostante fossero state pubblicate, infatti, per testimoniare le crudeltà dei vietcong e l’eroismo dei soldati americani, molte fotografie finirono per creare un’idea del Vietnam come macelleria senza limiti e senza senso. Grazie alla loro forza emozionale, alla capacità di testimoniare e di fissarsi nella memoria ben più di ogni discorso – essi si rivelarono «traditrici». Una lezione di cui gli apparati militari e le strategie comunicative del potere hanno saputo, per così dire, far tesoro.
Dopo quella guerra persa (nei media e nella realtà), si cercò di anestetizzare la visione. In che modo? I contributi del libro lo evidenziano molto bene: impedendo la libertà di accesso ai giornalisti indipendenti; non dando visibilità a guerre che «non fanno notizia», e facendo sparire dalle immagini il dolore, i corpi del nemico e quelli dei propri soldati. Così, della guerra in Iraq (quasi un milione di morti) sono rimaste nella memoria collettiva soprattutto i filmati notturni dei bombardamenti su Bagdad che, coi loro tracciati verdeggianti, davano vita a un surreale spettacolo di luci. Meglio ancora poi se i soldati (ormai militari di professione e contractors) la guerra la fanno quasi senza parteciparvi. La pubblicazione di dati recenti dimostra, ad esempio, che i droni, manovrati da una base militare nel deserto del Nevada, hanno compiuto nel 2016 più di 400 attacchi in Libia – droni peraltro denominati Reaper, «la mietitrice», ovvero la morte con la falce… Si assiste così (come fa notare Guerri) alla prima realizzazione di un’arma che colpisce in assenza del corpo dell’aggressore: un aereo-giocattolo senza pilota che trasforma i campi di battaglia in «aree di sorveglianza» e le vittime in «target», o in bug splats («insetti spiaccicati»), come li definiscono gli operatori di tali interventi.
L’immaginario, scatenato o sopito dalle immagini, è dunque parte integrante dei conflitti: queste non si limitano infatti a rappresentare la realtà (o a «de-realizzarla» come sosteneva Baudrillard), ma possono neutralizzarla, renderla asettica o pilotare paure e violenze. La cosa importante è che le nostre guerre (diversamente da quelle degli altri) risultino pure, pulite, combattute con armi altrettanto pure e cibernetiche, e soprattutto prive di morti o sofferenti con cui lo spettatore possa identificarsi (lo evidenzia bene Ruggero Eugeni). I bombardamenti devono apparire «chirurgici», il nostro sguardo scientifico e oggettivo, per garantire che non si colpiscano esseri umani ma solo «obiettivi strategici». I territori non si conquistano più, ma si «bonificano», in modo da suggerire, nell’immaginario collettivo, un rassicurante messaggio di lindore.
Che le immagini aeree, perfette per suggerire la massima oggettività, possano far sembrare veri e inconfutabili fatti indimostrabili o inesistenti (e quindi risultare utili a precostituite intenzioni belliche) è chiaramente dimostrato dalla «bufala» dei depositi di armi chimiche irachene, «mostrati» da Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2003. Certo, la storia ora ci dice che in Iraq tali armi non c’erano. Alcuni film indipendenti (come spiega Giorgio Avezzù) dimostrarono in seguito che la ripresa satellitare utilizzata da Powell era illeggibile e oscura: di fatto non poteva evidenziare nulla. Ma le immagini aeree avevano dato l’impressione di essere «scientifiche», quindi oggettive, inconfutabili. Strategico era sottolineare che gli americani dall’alto vedevano tutto e mantenevano dall’alto il controllo sul mondo, anche dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle.
Il tabù delle Torri gemelle
Le terribili immagini delle vittime che precipitavano dalle Twin Towers si sono impresse nella memoria, ma sono state quasi subito rimosse dai media, e mai più riproposte, come se si fossero rivelate un tabù. Quelle stesse immagini, tuttavia, vennero riprese e riportate in vita (spiega qui Mauro Carbone) da opere di narrativa quali L’uomo che cade di DeLillo e Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, scritte qualche anno dopo il 2001 per elaborare i traumi anziché rimuoverli, per indietreggiare verso il passato e da lì guardare all’oggi. Non solo gli scrittori, ma anche molti artisti si sono dedicati a creare immagini consapevoli, proprio per riscattare la guerra e l’orrore dall’invisibilità e dalla perdita di memoria: lo dimostrano, ad esempio, i testi che analizzano le opere di artisti come Kiefer (nel saggio di Francesca Marelli) o di autori argentini protesi a ridare presenza agli assenti, a quei desaparecidos cui è stato negato perfino di avere un corpo morto (di Alice Cati).
Di grande interesse è infine il testo di Andrea Pinotti, che evidenzia come alcune pratiche artistiche contemporanee impegnate a farsi memoria escano da un dispositivo puramente visivo basato sulla distanza tra opera e spettatore, per costruire invece un emozionale e intenso rapporto di relazione tattile. È il caso del Monumento a un monumento di Horst Hoheisel e Andreas Knitz a Buchenwald, una semplice piastra-memoriale riscaldata a 36,5° C, allo scopo di presentificare – nella totale assenza di immagini – le vittime: chi si china per carezzare la piastra, che ha la temperatura di un corpo umano, sente il loro calore cancellato.