Il figlio di Hamas, The Green Prince in originale, diretto da Nadav Shirman, è uno di quei film che creano problema e non in senso buono. La storia è di quelle che, per quanto «vere», dichiarate come tali in forme sensazionalistiche, lasciano nella testa dello spettatore più dubbi di quanti non ne risolvano. E anche questo in un senso per niente positivo. La storia appartiene al novero dei racconti edificanti che piacciono agli occidentali che del conflitto arabo-israeliano sanno poco o niente e alla parola «palestinese» reagiscono sempre un tantino infastiditi.

Mosab, palestinese, figlio di un dirigente di Hamas, arrestato, si converte alla causa dei «buoni», perché si rende conto della follia che ha alimentato e che si continua ad alimentare inarrestabile. A guidarlo nella sua conversione un agente israeliano. Sono soprattutto gli attentati suicidi che convincono Mosab che Hamas è più parte del problema che una possibile soluzione. Semplifichiamo, provocatoriamente, perché l’approccio del regista alla vicenda che mette in scena, in termini squisitamente filmici, banalizza a sua volta terribilmente tutte le questioni sul tavolo delle discussione che riguarda il dibattito sul «reale».

Basato sul bestseller di Mosab Hassan Yousef, il film è una sorta di paradossale reinvenzione della parabola del figliol prodigo, dove il padre cui si ritorna è rappresentato dall’agente Gonen Ben Yitzak, uomo di riferimento allo Shin Bet – il servizio di intelligence israeliano – con il quale Mosab collabora come informatore per dieci anni. Il «tradimento» come prezzo del ritorno, in se un soggetto estremamente interessante, si compie ai danni del cinema stesso. Il film si presenta come autentico – e non «re-enacted», ossia re-interpretato – come una successione implacabile di teste parlanti in un montaggio parallelo tanto prevedibile quanto stancante. Solo a metà film circa lo spettatore inconsapevole si rende conto, attraverso l’inserzione di materiale d’archivio, che coloro che parlano in macchina non corrispondono ai corpi che si vedono nei filmati d’epoca.

Niente di male in tutto ciò, se almeno il procedimento fosse dichiarato come tale, come finzione scenica, dall’inizio. Invece, attirare la sospensione dell’incredulità dello spettatore, senza intavolare con lui un contratto che lo spettatore possa accettare o rifiutare, è una strategia narrativa alquanto discutibile. A dir poco. Anche il tradimento, o il rovesciamento delle attese, necessita di una strategia del tradimento stesso. In tutto questo l’aspetto più problematico è il discorso stesso del film che si presenta come apologo dell’amicizia in grado di scavalcare barriere, fedi e ideologie.

E in questo caso anche le regole etiche e morali non scritte del cinema del reale. In questa banalizzazione delle complessità in campo, che non risparmia né gli israeliani né Hamas (e non si tratta di fare sconti o tifare per qualcuno), il conflitto è ridotto alle dimensioni di un romanzo d’appendice alla fine del quale una conversione negli Stati uniti pone l’inevitabile sigillo di un ecumenismo a-storico che frettolosamente passa un colpo di spugna su milioni e milioni di parole e ferite, morti e speranza.