La ricaduta sul governo della sconfitta elettorale di Salvini se la aspettavano tutti. Non così presto. Non così estrema. La Lega diserta il consiglio dei ministri incaricato di varare la delega fiscale. Prima ancora il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, che sostituiva Giancarlo Giorgetti nella cabina di regia, aveva lasciato la riunione spiegando il gesto con il disaccordo della Lega sui contenuti della delega. Fonti del Carroccio aggiungevano che la protesta era anche rivolta al metodo: un testo arrivato ai ministri mezz’ora prima della riunione, dunque senza dare tempo per analizzarlo, secondo le abitudini di Mario Draghi. Matteo Salvini, più tardi, si incaricherà di confermare che il dissenso riguarda sia il metodo che il merito: «Ci hanno dato solo mezz’ora per leggere il testo. La delega non è l’oroscopo e questo metodo non va bene. La riforma del catasto non è quella sulla quale avevamo trovato l’accordo in parlamento e quando si tratta di nuove tasse e del portafogli degli italiani noi non ci pieghiamo. L’accordo di governo iniziale era che non ci sarebbero state nuove tasse».

SALVINI AGGIUNGE una frase che suona particolarmente minacciosa: «Questo non è il Green Pass». Come dire che qui ci sono di mezzo cose serie e quattrini sonanti, non solo propaganda gratuita. Il leghista prova a camuffare la polemica con il presidente del consiglio: «Di lui ci fidiamo ma come si fa a sapere cosa farà un governo diverso da questo? È una legge delega, che verrà attuata con decreti che non dovranno neppure essere votati dal parlamento». Diplomazia d’obbligo ma la polemica con il premier resta palese. E molto, molto accesa. Nei palazzi della politica, dal Colle in giù, regna un mix di sconcerto e perplessità. Tutti prevedono che il capo leghista, all’indomani di una mazzata nelle urne, senza poter abbandonare la nave di Draghi, sarà costretto a tornare sui propri passi a capo chino, dopo una levata di scudi tanto disperata quanto azzardata. Ma nessuno può essere davvero certo che la faccenda non sfugga di mano allo stesso Salvini, con esiti imprevedibili.

LA GIORNATA SI ERA aperta nel classico clima da day after. La leader di FdI Giorgia Meloni convoca una conferenza stampa nella quale, secondo copione, canterà vittoria a voce spiegata. Salvini, dopo aver ammesso a caldo la sconfitta, ci ripensa e conta oltre 60 comuni conquistati dalla Lega, come se una città valesse l’altra: «Magari ci fossero sempre sconfitte così». Repertorio. Per il primo pomeriggio è convocato il consiglio dei ministri incaricato di varare la delega fiscale, ma nessuno sa ancora che nel testo è stata inserita anche la riforma del catasto. Quando i leghisti se ne accorgono l’esplosione è fragorosa. Giancarlo Giorgetti fa sapere che la sua assenza non è diplomatica, che era davvero impegnato. Non tutti ci credono. Nessuno ci giurerebbe. Al suo posto c’è Garavaglia ed è appunto lui ad abbandonare la cabina di regia aprendo le ostilità. Poi i ministri leghisti non si presentano al cdm e il caso esplode.

DRAGHI TIRA AVANTI. Il governo vara comunque la delega. In conferenza stampa il premier è caustico: «La decisione della Lega la spiegherà Salvini. Avevamo fornito informazioni sufficienti a valutare la legge delega. È certamente un gesto serio sulle cui implicazioni bisognerà aspettare cosa dirà la Lega. Ma l’azione di governo non è stata interrotta e comunque ci saranno altri momenti di confronto nella maggioranza». È il metodo Draghi: chiamarlo «decisionista» è un eufemismo. Forse è anche una scelta obbligata. Non è che al premier faccia piacere lo scontro con la Lega. Anzi, con cipiglio preoccupato il presidente del consiglio prende le distanze dalle interpretazioni a mezzo stampa che vorrebbero il governo rafforzato dalla sconfitta leghista: «Non mi sembra e non capisco perché lo dicano. Si può solo dire che non è indebolito». Invece lo è e Draghi se ne rende conto. La sconfitta leghista è una mina vagante. Il premier non avrebbe alcun interesse a farla esplodere. Ma lo spostamento di capitali dalla rendita alla produttività è un tassello fondamentale nella scommessa per tirare fuori l’Italia non da un anno di crisi Covid ma da trenta di stagnazione. Non può arretrare. Deve rischiare.

DOPO LO SCONTRO Salvini incassa la piena solidarietà di Meloni, «ha fatto benissimo a non votare una delega in bianco», mentre partono gli strali di Enrico Letta che convoca ministri, capigruppo e vicesegretari dem: «Lo strappo è gravissimo». E per Giuseppe Conte «è un fatto molto grave, significa non sedersi neppure a discutere». Come finirà nessuno lo sa anche se la resa di Salvini è data da tutti per probabilissima. È solo la prima forsennata danza in un ballo che nei prossimi 18 mesi diventerà sem