Stop alle missioni terrestri statunitensi in Yemen: la risposta del governo yemenita (quello ufficiale sostenuto da comunità internazionale e coalizione sunnita a guida saudita) rimbalzava ieri sui quotidiani globali.

Una reazione alla strage di civili compiuta il 29 gennaio dall’esercito Usa nella provincia meridionale di al-Bayda ma anche, spiegavano fonti governative, al Muslim Ban del presidente Trump, che esclude dal territorio statunitense anche i cittadini yemeniti.

Una mezza smentita arriva nel pomeriggio: le operazioni di terra contro al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) continuano, precisa il governo, ma d’ora in poi dovranno avere l’approvazione yemenita. Perché quella di fine gennaio è stata gestita in modo raffazzonato dalla nuova amministrazione, sulla base di un’intelligence parziale: mentre il Pentagono ammetteva vittime civili (pur insistendo nel definirla un’azione «di successo»), la stampa pubblicava i retroscena della prima operazione autorizzata da Trump in uno degli scenari di guerra che intende intensificare.

Già pianificata dal predecessore Obama ma mai concretizzata per la mancanza di informazioni certe, al raid è stato dato il via libera durante una cena tra Trump e i capi militari. Lontano, dunque, dalla Situation Room.

A terra sono rimasti 14 miliziani qaedisti e 23 civili, tra cui una bimba di 8 anni, figlia del religioso qaedista al-Awlaki e cittadina Usa. Ieri, la reazione: il ministro degli Esteri al-Mekhlafi ha chiesto un «riaggiustamento» dei rapporti Usa-Yemen, ovvero un maggiore coordinamento futuro nel caso di missioni simili.

Via libera ai raid con i droni, dunque, ma per le operazioni terrestri gli Stati uniti dovranno coordinarsi con il presidente Hadi. Una botta al cerchio e una alla botte da parte di un governo invischiato in una guerra civile senza sbocchi, che rappresentativo non è e che si aggrappa con i denti alle alleanze internazionali fondate sulla guerra per procura all’Iran.

Questo è lo Yemen: il palcoscenico dello scontro tra Riyadh e Washington da una parte e Teheran dall’altra. La guerra a distanza con i droni ad Aqap, amplificata sotto Obama, non ha indebolito l’organizzazione jihadista, che avanza (il giorno dopo il raid del 29 gennaio ha occupato tre città nella provincia orientale di Abyad) e gioca sulle contraddizioni interne, sulle strette relazioni intessute con alcune tribù locali nell’amministrazione delle città occupate, le stesse tribù che combattono il movimento Houthi al fianco del governo.

I droni, piuttosto, permettono di tenere la posizione nel Golfo. Se la prospettiva di un nuovo isolamento iraniano dopo l’accordo sul nucleare sembra impraticabile, Trump punta a colpire i ribelli Houthi. Dicendo di combattere ad al Qaeda e mandando un cacciatorpediniere nello stretto di Bab al-Mandab, realizza un blocco navale (in aggiunta a quello aereo imposto dai Saud) e impedisce l’arrivo di armi iraniane.

Blocchi che incidono pesantemente su un paese da cui sono scomparsi cibo, acqua, carburante, medicine. Con l’Onu che da mesi parla di una crisi brutale in cui a uccidere è la fame (3.3 milioni di persone sono gravemente malnutrite, 21 milioni sono a rischio) e lancia una raccolta fondi da 2 miliardi di dollari, Stati uniti e Arabia saudita realizzano una chiusura pressoché totale.

Ora nel mirino c’è la città portuale di Hodeidah, sulla costa occidentale. Principale porto yemenita, era il tradizionale punto di arrivo dei beni alimentari (lo Yemen importa il 90% del cibo che consuma). Controllato dagli Houthi, è il nuovo target saudita: ieri forze governative e soldati emiratini hanno ripreso la città di al-Mokha, portandosi sempre più vicini ad Hodeidah.