La Siria è una polveriera. La guerra data per conclusa morde come negli anni peggiori del conflitto: Ghouta est, il sobborgo di Damasco in mano agli islamisti, è sotto le bombe russe da giorni con il suo carico di vittime civili; Idlib è terreno di scontro diretto tra governo e galassia qaedista, con le truppe turche che da Afrin ne approfittano per un ingresso camuffato; e gli Stati uniti inviano i jet a compiere stragi di soldati siriani colpevoli di attacchi alle Forze Democratiche Siriane, non meritevoli però di identica «protezione» se a colpirli sono i bombardamenti dell’aviazione turca su Afrin.

Il raid è stato lanciato alle prime ore di ieri, lungo l’Eufrate, nella provincia di Deir Ezzor in risposta – dice la coalizione a guida Usa – ad un «attacco ingiustificato» delle truppe del presidente Assad contro le Sdf, federazione curda, araba, assira e turkmena impegnata nel nord del paese contro l’Isis.

Un attacco, secondo funzionari statunitensi anonimi, volto «probabilmente a occupare giacimenti di petrolio a Khusham» e che avrebbe visto coinvolti 500 miliziani pro-governativi. Da qui l’offensiva che ne ha uccisi almeno 100; nessuna vittima sull’altro fronte.

L’intervento Usa – che segue ai 59 missili Tomahawk lanciati dieci mesi fa dal presidente Trump, fresco di nomina, sulla base siriana di Shayrat – ha un potenziale distruttivo enorme: Washington rientra di prepotenza in un conflitto da cui è stata marginalizzata, messa in imbarazzo in primis dall’alleato Nato, la Turchia, che dal 20 gennaio conduce una brutale operazione contro i curdi ad Afrin e minaccia di spostarsi verso Manbij, quartier generale di duemila marines.

La Russia da parte sua getta acqua sul fuoco con una mano (il ministero della Difesa ha affermato che le unità pro-governative coinvolte non avrebbero comunicato la loro attività a Mosca), mentre con l’altra accusa gli Stati uniti di voler assumere il controllo delle risorse economiche siriane. Più esplicito il governo di Damasco che parla di «aggressione».

Il potenziale distruttivo sta anche nelle dichiarazioni rilasciate, in anonimato, da fonti diplomatiche vicine alle opposizioni siriane al portale Middle East Eye: Washington e Parigi starebbero valutando l’ipotesi di nuovi raid aerei contro postazioni militari del governo di Damasco, in risposta a presunti attacchi con il gas sarin. Ufficiosamente, viene da dire, in risposta ai risultati diplomatici dei tavoli di Sochi e Astana, chiaramente a favore di Assad.

Nelle stesse ore, indisturbati, carri armati turchi raggiungevano la provincia di Idlib. Scortato da mezzi militari dei gruppi islamisti lì concentrati, secondo quanto riportava ieri al Jazeera, il convoglio si è diretto nella città di Saraqib, a sud-est del capoluogo Idlib, in piena de-escalation zone (tra le quattro previste da Mosca, Teheran e Ankara con gli accordi di Astana del 2017).

Un posizionamento che non è mera strategia, ma un atto politico: il governo turco è apertamente schierato al fianco delle opposizioni islamiste e qaediste e, dopo averle aiutate a prosperare e a ingurgitare le poche unità laiche rimaste, oggi le utilizza a proprio favore nella guerra al progetto politico curdo a Rojava.

In cambio Tahrir al-Sham, federazione egemonizzata dall’ex Fronte al-Nusra, ottiene un endorsement fondamentale, soprattutto alla luce della rinnovata battaglia con le forze governative.

Si assiste di nuovo alla schizofrenica stratificazione di alleanze che si sovrappongono e si contraddicono e che vedono oggi i carri armati di Erdogan nelle zone in cui dalla fine dello scorso anno Damasco ha lanciato la propria reconquista.

Un’ampia controffensiva che ritorna anche nella capitale, nel sobborgo di Ghouta est, sotto assedio esterno governativo e interno islamista dal 2013, con 400mila persone letteralmente ridotte alla fame. A nulla sono valsi gli accordi di evacuazione mediati lo scorso anno: solo una parte di miliziani ha lasciato Ghouta est, da quattro giorni ormai sotto una rinnovata e ininterrotta pioggia di bombe russe e siriane.

Sarebbero, secondo fonti dell’opposizione, almeno 200 i morti tra i civili, tra loro donne e bambini. Inutile dire che Ghouta est, al pari di Idlib, dovrebbe rientrare tra le zone di de-escalation. Resta, al contrario, terreno di scontro pagato dai civili, quasi del tutto privi di medicinali e ospedali funzionanti, di acqua potabile e cibo.