Almeno in primo grado, la giustizia italiana non ha trascurato la memoria dei sette operai cinesi morti come topi in trappola nel capannone lager di via Toscana al Macrolotto. Lì dove lavoravano sette giorni su sette, e vivevano come schiavi moderni, per essere pagati con 50 euro al giorno. Il processo con rito abbreviato alla titolare e ai due gestori della ditta di confezioni Teresa Moda si è chiuso con la condanna a 8 anni e 8 mesi di Lin Youlan. Mentre la sorella Lin Youli è stata condannata a 6 anni e 10 mesi, e il marito di quest’ultima, Hu Xiaping, a 6 anni e 6 mesi.

La giudice Silvia Isidori ha accolto quasi in toto l’accurata ricostruzione della strage fatta dalla procura pratese. Alle accuse di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato, si aggiungevano le reiterate violazioni delle più elementari norme sulla sicurezza. Su questo aspetto, la gup Isidori ha certificato la colpevolezza di Lin Youlin per l’omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. In altre parole la padrona della ditta è stata ritenuta responsabile di aver coscientemente messo a rischio la vita dei suoi operai, per ottenere un maggiore profitto. Come accaduto, ma solo in primo grado, nel processo per l’immane rogo alla Thyssen Krupp.

Come evidenziato nella requisitoria del pm Lorenzo Gestri, il capannone dove aveva sede la Teresa Moda non aveva le uscite di emergenza né altri percorsi di fuga. Mancava una rete idrica per l’antincendio, e l’impianto elettrico non era a norma. “E’ molto probabile – aveva spiegato Gestri – che sia stato la causa dell’inizio dell’incendio. Ma se non ci fossero stati i soppalchi non ci sarebbero stati i morti, e non ci sarebbe questo processo. Perché la situazione era di una gravità straordinaria”.

Gli operai lavoravano – anche per 16 ore al giorno – mangiavano e dormivano in una struttura con le sbarre alle finestre, e con loculi in cartongesso. Prendere o lasciare. “E non mi si dica che non c’era consapevolezza che i soppalchi erano il luogo più insicuro – aveva puntualizzato il pm – non è un caso che Youli e il marito si siano salvati, e non è un caso che fossero nel luogo più vicino all’uscita, in una stanza realizzata in cemento”.

Il processo ai proprietari italiani del capannone è ancora in corso. Giacomo e Massimo Pellegrini, che con una loro società immobiliare affittavano a caro prezzo l’immobile, sono anch’essi accusati di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato. Già in questo processo è stata evidenziata la commistione di interessi tra confezionisti cinesi e immobiliaristi italiani, sempre assistiti da avvocati e commercialisti esperti. E sempre pronti a chiudere gli occhi sulle violazioni della sicurezza. Intanto il difensore degli imputati Gabriele Zanobini annuncia il ricorso in appello: per lui il “sistema Prato” – quello che con enorme fatica le istituzioni e gli investigatori stanno da allora cercando di combattere – non è stato dimostrato nel dibattimento.