C’era una piccola ma non trascurabile possibilità per 350 bosniaci musulmani di scampare al massacro di Srebrenica nel 1995. Una possibilità del 10%, secondo la Corte suprema dell’Aja che ha confermato la responsabilità parziale dello Stato per la morte di quegli uomini che avevano cercato riparo nella base delle Nazioni Unite a Potocari, vicino Srebrenica, e che invece furono consegnati dal Dutchbat, reparto speciale dell’esercito olandese, alle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic, «il macellaio».

Agli inizi del luglio 1995 le forze armate dei serbi di Bosnia avevano sferrato un attacco contro l’enclave di Srebrenica dichiarata dall’Onu come zona protetta, allora sotto tutela di un contingente olandese dell’Unprofor, la missione di peacekeeping dell’Onu. Lì negli anni precedenti avevano trovato protezione migliaia di bosniaci musulmani scampati ad altre offensive delle truppe di Mladic nella Bosnia nord-occidentale. Eppure in quell’estate Srebrenica si trasformò in una trappola mortale per più di 8000 bosniaci, in gran parte uomini. Una delle pagine più buie della storia del Novecento, un massacro, il più grande in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, riconosciuto come genocidio dalla Corte di giustizia internazionale e dal Tribunale per i crimini internazionali nell’ex Jugoslavia.

Dato il convolgimento dei militari olandesi, il governo di Wim Kok aprì un’inchiesta sulle responsabilità del Dutchbat già nel 1996. Un’inchiesta che sfociò sei anni dopo in un rapporto che spinse il governo olandese a presentare in blocco le dimissioni. L’Aja era responsabile, ma non colpevole, del massacro perpetrato ai danni della popolazione bosniaco-musulmana.

Una ricostruzione confermata in sostanza dalla giustizia olandese nei diversi gradi di giudizio, seppur ridimensionando fortemente la portata della responsabilità dello Stato. Nei giorni precedenti il massacro erano almeno 5 mila i bosniaci musulmani presenti nella base Onu, ma l’Olanda è stata condannata solo per la morte di 350 di loro, quelli la cui presenza era sconosciuta alle forze di Mladic.

Ieri la sentenza definitiva che ha confermato la condanna dello Stato per la decisione assunta dal Dutchbat di consegnare quegli uomini nelle mani dei serbo-bosniaci. Rispetto alla sentenza della Corte di appello del 2017, però, viene ridotta la percentuale di responsabilità, portandola dal 30 al 10%.

«Una presa in giro per noi sopravvissuti» attacca Camil Durakovic, ex sindaco di Srebrenica, scampato al massacro. «Il tentativo dell’Olanda di prendersi parte della responsabilità, ha proseguito, è di per sé offensivo. Prima si mette all’asta il numero delle vittime, riducendole a 350, poi di quelle 350 si riduce la percentuale di responsabilità».

Sulla stessa linea anche Murat Tahirovic, presidente dell’Associazione vittime del genocidio, che definisce la sentenza «umiliante» anche tenendo conto di quella precedente. «La percentuale della responsabilità era minima, ma ora è particolarmente irrisoria». L’associazione Madri di Srebrenica che ha portato il caso dinanzi ai tribunali olandesi, sta valutando ora la possibilità di fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. «Le percentuali non significano nulla per noi – ha commentato Munira Subasic – presidente dell’organizzazione, l’importante è che sia stata riconosciuta la responsabilità dello Stato. Mi addolora però che non abbiano permesso ai soldati di testimoniare perché loro stessi hanno raccontato alle vittime che avrebbero potuto fare molto di più per loro. Il ministero della Difesa (olandese, ndr) ha cancellato tutte le prove in suo possesso. Perché lo ha fatto? Dov’è la democrazia?». Interrogativi che attendono ancora una risposta.