Lo stadio di Port Said è coperto di graffiti. Verdi, colorati, semi-cancellati o semplici sfregi inneggiano agli ultras dell’Al-Masry (Green Eagles) o sfidano la polizia, come Acab (acronimo di All cops are bastards) che appare ovunque. Più avanti si vedono le sagome di scheletri e pagliacci. Questi cancelli chiusi sono testimoni di due massacri: il primo all’inizio del febbraio 2012, costato la vita a 74 persone, soprattutto tifosi dell’Al-Ahly; il secondo, un anno dopo, per la sentenza che ha condannato 21 uomini alla pena di morte. Ma nessuno crede che i veri responsabili del massacro siano in prigione. «Sono stati prelevati senza motivo, la sera stessa o due giorni dopo la partita, solo perché erano presenti nello stadio o si trovavano nei pressi», ci spiega Mohammed mentre attraversa le strade del quartiere popolare di Al-Arab dove vivono molte delle famiglie dei condannati.

Ragaa Bardari, 27 anni, è rinchiuso nel carcere di Ismailia in attesa della sentenza di appello o dell’esecuzione della pena capitale. «Vogliamo sapere chi è stato, ma non può pagare Ragaa al posto di piccoli criminali o uomini del vecchio regime», ci racconta Sayed Al-Barey, 50 anni, padre del detenuto. Ma all’improvviso, in questa minuscola casa in cui si vedono ancora i segni di vetri rotti e sfregi alle mura, risalenti al giorno in cui il giovane è stato prelevato dalla polizia, arriva l’inattesa telefonata del ragazzo nel braccio della morte. Questa famiglia ha connessioni sufficienti per avere contatti quotidiani con Ragaa. La sua giovane moglie scoppia in lacrime. «Odiamo i tifosi dell’Al-Ahly come odiamo il governo», continua Shayma, 22 anni, di cui si vedono solo gli occhi lucenti che emergono dal velo nerissimo. E qui e là gironzolano la madre e la sorella del condannato che mostrano orgogliose le “splendide” foto del loro congiunto. «Siamo stati al funerale delle vittime delle proteste contro la sentenza (del 26 gennaio 2013, ndr)», ci confidano. «Ma quando hanno iniziato a sparare siamo scappate via». Tutta la famiglia continua a giurare l’innocenza di Ragaa. «(Gli inquirenti, ndr) si sono attenuti alla testimonianza di un ufficiale dell’esercito che ha visto mio figlio mostrare uno striscione, ma so che non è mai salito sugli spalti dello stadio dove si è consumato effettivamente il massacro», spiega commossa la madre del condannato.

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La rivalità regionale si manifesta nel tifo calcistico con slogan ingiuriosi verso l’avversario come «la città dei vestiti di seconda mano (Port Said ha un fiorente mercato di roba usata, ndr) è priva di uomini». Ma più passano i minuti, più le accuse si fanno concitate e arrivano a toccare anche i Fratelli musulmani, responsabili secondo questa famiglia di avere le prove fotografiche che scagionerebbero il figlio, ma di tenerle nascoste. «È un’ingiustizia: hanno fabbricato delle prove false e tutti conoscevano il verdetto in anticipo, mentre noi eravamo pronti a festeggiare il suo rilascio». Shayma è un fiume in piena, racconta che il suo compagno si è sempre occupato del lavaggio dei corpi dei defunti prima della sepoltura, come una prova inconfutabile di integrità morale.

A due passi da lì, tra i lotti di queste case di pescatori e marittimi, Nasra Fahmi ha preparato un pannello con le foto dei suoi due figli Youssef e Mohammed, di 25 e 30 anni. Sembrano dei martiri della rivoluzione ma in realtà sono solo due fratelli in prigione: uno condannato alla pena di morte, l’altro ai lavori forzati per 25 anni. Il calendario in questa casa poverissima è fermo al 12 febbraio 2012, pochi giorni dopo il massacro, quando questa donna ha visto sparire la ragione della sua vita. Youssef lavorava come mozzo nella nave di un vicino di casa e viaggiava spesso verso il Sudan. «Era in ospedale perché ha problemi al ginocchio, il fratello è andato a prenderlo e si sono recati allo stadio, da quel momento non sono più con me», dice tra singhiozzi la donna. Mostra le foto dei suoi figli da piccoli e racconta delle sue visite in carcere. Come le famiglie di Ragaa e Youssef, ci sono migliaia di persone a dubitare della sentenza che in fretta e furia ha tentato di mettere una pietra sopra la vicenda più sanguinosa delle rivolte in Egitto: gli stessi che hanno manifestato per tre giorni consecutivi, che hanno sfidato costantemente il coprifuoco e che ancora sono pronti a scendere in piazza perché si faccia luce sulle responsabilità dell’assenza dello stato, di polizia e militari.
Per le strade di Port Said, tra magnifici palazzi in stile coloniale dalle verande lignee, circolano indisturbati anche sei evasi. Non si sono fatti trovare in casa al momento dell’arresto e sono stati condannati in contumacia. Tutti sanno dove sono ma nessuno va a prelevarli. «Non c’è legge né autorità, le persone che sono in carcere non dovrebbero essere lì perché non hanno prove nei loro confronti», rivela il giovane che preferisce non rivelare la sua identità. È uno degli evasi costretti a vivere in clandestinità. In merito alle motivazioni che hanno portato a questo stato di cose non ha dubbi: «Hanno sacrificato un piccolo gruppo di tifosi (dell’Al-Masry, ndr) per vendicarsi su un gruppo ben più largo (Al-Ahly, ndr)». E la sua vita non è la stessa dall’inizio del processo. «Sono costretto a fare piccoli movimenti e a passare la giornata con i miei amici più stretti, sento i miei familiari solo al telefono», aggiunge con rassegnazione.

Un muro di gomma e 20 capri espiatori

Il tifo a Port Said è la vita per migliaia di persone. I supporter dell’antica squadra locale si dividono in tre gruppi: i Super Green sono soprattutto giovani di classe media. Il secondo è composto da Green Eagles: studenti che vivono in aree popolari, spesso si tratta di piccoli criminali che girano armati di coltelli. Infine ci sono i Masrawy: il resto del tifo, incluse famiglie e comuni spettatori che prendono parte regolarmente alle partite della squadra di Port Said. Midu, 27 anni, è un capo-ultras del quartiere popolare Ard el-Hazab. «Quel giorno era tutto iniziato come sempre, cantavamo i nostri slogan consueti che ricordano i tifosi dell’Al-Masry del 1952 e il loro ruolo nella resistenza contro gli inglesi: ‘Mio fratello è morto e il suo sogno era di liberare Port Said’, dice uno degli slogan». Secondo molti ultras la maggior parte delle morti sono state causate da soffocamento. Al momento degli scontri il servizio di sicurezza autogestito dai tifosi è risultato inefficace e l’assenza di polizia ha fatto il resto, ma sono tutti pronti a giurare che non si è trattato di un’azione premeditata dei tifosi dell’Al-Masry.
Ines del Centro Mousawa per i diritti umani ha seguito con servizi legali la battaglia dei familiari dei condannati a morte. «Il primo grande elemento di sospetto, che da solo dovrebbe rendere nulla la sentenza di primo grado, riguarda l’assoluzione per insufficienza di prove dei poliziotti che erano presenti nello stadio». Ines ricorda con precisione il giorno del verdetto. «I familiari dei condannati si erano riuniti alle porte della caffetteria Bahreia a 500 metri dalla prigione di Port Said. Nel momento in cui il giudice ha pronunciato la condanna, due motociclette guidate da poliziotti sono apparse e hanno lanciato una raffica di colpi in aria e sulla folla innescando lo scontro con i manifestanti. A quel punto molte donne sono scappate via, colpite dai gas lacrimogeni», racconta istante per istante Ines. Negli scontri del giorno della sentenza e ai funerali delle vittime sono morte oltre sessanta persone, quasi mille sono stati i feriti. «Molti dei condannati per il massacro del 2012 hanno degli alibi di ferro: Manadil era stato ferito e si trovava in ospedale il giorno del match. La maggior parte dei deceduti ha riportato la rottura del collo, i loro cadaveri erano cianotici, o è stata recisa l’arteria femorale: si tratta di killer professionisti che hanno ucciso a raffica. Molti dei condannati poi hanno 16 anni e non avrebbero potuto commettere un omicidio del genere», aggiunge il legale.

Ines punta anche il dito contro la stigmatizzazione dei tifosi. «Non si diventa killer all’improvviso, se ci fosse stato un solo morto si sarebbero fermati. La massima provocazione che fino a quel giorno avevano perpetrato gli ultras poteva essere di rubare la maglietta dell’avversario non certo di uccidere», continua l’avvocato. La notte del massacro ha segnato tutti a Port Said, ma Ines annovera le incongruenze della vicenda. «La squadra dell’Al-Masry stranamente stava vincendo contro il team più forte del campionato: un evento per la città. Già prima degli scontri una quantità di ambulanze si è diretta verso lo stadio. Poco dopo è andata via la luce, i tifosi hanno preso il microfono tra le mani, i Masrawy hanno issato lo striscione contro gli avversari. Da lontano si vedevano fuochi d’artificio mentre le porte dello stadio venivano irreparabilmente bloccate. La polizia è sparita, a quel punto il caos. Nessuno sa dove siano finiti tutti i corpi dei morti, non ne abbiamo potuti visionare che alcuni». I responsabili del massacro per Ines sono il ministero degli Interni e la giunta militare che ha usato criminali e disattivato la polizia per vendicarsi dei rivali politici: i tifosi dell’Al-Ahly. Secondo Ines, tutto questo è avvenuto proprio a Port Said, al confine con Israele, luogo strategico, dove nessuno sarebbe stato pronto ad accettare l’instabilità di un vuoto di potere se la giunta militare avesse immediatamente lasciato governare un esecutivo “rivoluzionario”. L’assenza di sicurezza avrebbe messo a repentaglio gli ingenti interessi economici dei paesi vicini. «E così anche l’approvazione di una legge per il libero scambio nel Sinai sarebbe stata messa in discussione. Ma i militari hanno riaffermato la necessità del loro governo richiamando l’utilità del ritorno alla stabilità», conclude l’avvocato.

Lo scontro tra stato e società

Il massacro di Port Said non è frutto di semplice rivalità calcistica. Un giocatore dell’Al-Ahly ha scagionato un tifoso dell’Al-Masry tra i condannati a morte perché lo ha visto salvare la vita ad alcune persone sul campo da gioco. «Sono uomini vicini al Partito nazionale democratico (Pnd) e poliziotti ad aver sparato», ammettono Ahmed Mohsen e Mohammed Al-Agheiry, attivisti di Tamarrod (Ribelli), che raccolgono firme per le dimissioni del presidente Mohammed Morsi. Appare chiaro a questi attivisti illuminati come l’esercito e gli islamisti abbiano usato le differenze religiose, tra cristiani e musulmani o sufi e salafiti, le rivalità regionali e calcistiche, tra città e zone rurali per rendere necessario il ritorno all’autoritarismo di regime. Ahmed e Mohammed ci mostrano un video sconcertante in cui due uomini in borghese sparano alla rinfusa dai tetti di un palazzo del centro contro chiunque passi di là il giorno dei funerali delle vittime. «Tre ragazzi sono morti mentre tentavano di spostare un disabile dalla strada. Ma nonostante l’imposizione di un coprifuoco notturno, le persone sono scese ancora più numerose, qui nessuno sente la presenza dello stato», spiegano. Gli ultras hanno giocato un ruolo centrale nelle proteste del 2011, soprattutto i tifosi dell’Al-Ahly, una delle più antiche squadre in Egitto con una lunga storia di tifo. E così molti hanno sostenuto l’ipotesi di una generica vendetta politica, perpetrata dall’esercito, contro i sostenitori dell’Al-Ahly, usando poliziotti e tifosi dell’Al-Masry come meri esecutori durante l’incontro di calcio tra le due squadre nel febbraio 2012. Nel 2011 in piazza Tahrir si trovavano vari attivisti: giovani, donne cristiane e musulmane, migranti, poveri, lavoratori e gli ultras dell’Al-Ahly. Il Consiglio delle forze armate e i Fratelli musulmani hanno monopolizzato e manipolato questi network alternativi. Il controllo dello stato sulla società è stato riprodotto permettendo un costante ma irrilevante dissenso. Il modo in cui i network alternativi sono stati disattivati dimostra come la distinzione tra stato e società è usata in Medio oriente per produrre e riprodurre il potere del primo. In particolare, questa pratica genera lo sfruttamento del dissenso politico e la diffusione del controllo politico sulla società.

Da Port Said al Sud America

Ma Port Said non accetterà tanto facilmente condanne a morte ingiuste. E neppure le liberalizzazioni imposte dai Fratelli musulmani. Sin dai tempi di Gamal Abdel Nasser, questa è terra di scioperi e movimenti sindacali. I politici islamisti vogliono fare del Sinai una zona di libero scambio dove le leggi egiziane possono essere bypassate per favorire gli investitori stranieri. Questo viene visto dai giovani attivisti che hanno impedito di parlare al ministro degli Investimenti, come l’ennesima ritrazione dello stato che lascerà questa terra priva di finanziamenti pubblici, di scuole e ospedali.

Le verande dell’antica Port Said rivelano i segni del passaggio dei colonizzatori. Anche lungo i moli di Port Said, i giovani guardano alle centinaia di navi che partono ogni giorno. Ma da qui si può solo raggiungere Port Fuad a bordo di un vecchio traghetto verde. Mentre i pescatori si fermano in via Saad Zaghloul, dove nei vicoli, salano le alici. La linea marittima Pan su via Gomorreya promette un imbarco per il Sud America. Nella caffetteria Kalitro, Ahmed Reda, direttore logistico della Cma ci informa che ci sono navi da Damietta agli Stati uniti, mentre la rotta per il Sud America fa scalo a Malta e Rotterdam. Su via 23 luglio ci imbattiamo in una scritta in italiano: «In questa casa d’Italia vive e viene perpetrato lo spirito millenario della patria»: l’iscrizione in marmo glorifica l’epoca sabauda e fascista. Port Said non smette di sorprendere e i suoi abitanti cercano un altrove che l’Egitto del post-Mubarak allontana.