Condanna all’ergastolo per Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi. Questa la sentenza della Seconda Corte d’assise d’appello di Milano. Alle 21 di ieri sera Anna Conforti, presidente della corte, dopo otto ore di camera di consiglio, ha letto il dispositivo finale, di fronte a un’aula gremitissima di avvocati, famigliari delle vittime e rappresentanti del Comune e della Camera del lavoro di Brescia. Bisognerà ora attendere il deposito delle motivazioni.

L’esito di questo appello-bis era in verità atteso, dopo il rigetto da parte della Cassazione della sentenza d’appello di Brescia accompagnato da rilievi assai critici sui «salti logici», «l’esasperata segmentazione del quadro complessivo», «l’ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune», operati dai giudici precedenti, pur in presenza di un complesso indiziario definito di estrema «gravità» nei confronti dei due imputati.
Il processo, apertosi lo scorso 26 maggio, non si è limitato a riconsiderare le carte. La corte ha ritenuto utile valutare, rinnovando parzialmente il dibattimento, diversi nuovi indizi emersi di recente. In particolare, le nuove testimonianze di alcuni detenuti che avevano condiviso con Maurizio Tramonte, tra il 2001 e il 2003, lo stesso carcere. Due (Vincenzo Arrigo e Renato Bettinazzi) hanno riferito delle confidenze dello stesso Tramonte in ordine alla sua presenza in piazza della Loggia al momento dello scoppio della bomba. Ad Arrigo, Tramonte mostrò anche una foto che custodiva in cella, scattata nei momenti immediatamente successivi alla strage, in cui si era riconosciuto confuso tra la folla. Una foto che il perito incaricato dalla Procura di Brescia ha ritenuto «compatibile» con le «caratterizzazioni morfologiche e metriche» di Maurizio Tramonte. Una rassomiglianza a dire il vero impressionante a occhio nudo, comparando la foto con quelle personali di quegli anni.

Grazie alle nuove indagini è stata anche accertata la partecipazione di Tramonte, fatto di fondamentale rilevanza, «la sera del 25 maggio» alla riunione di Ordine Nuovo ad Abano Terme (Padova). Sotto la guida di Carlo Maria Maggi, in preparazione della strage. Da qui la presenza in piazza della Loggia. Va detto che probabilmente non era stato il solo di Ordine Nuovo a comparire con funzioni operative o solo per assistere in diretta all’attentato. Nello stralcio di indagini apertosi a Brescia – a seguito di altre testimonianze – si fa anche il nome di un altro ordinovista, all’epoca minorenne, forse a sua volta ritratto in alcune istantanee.
Il Sid coprì Tramonte e Maggi, pur sapendo dei loro progetti criminali, e nulla fece per impedire la strage. Un dato incontestabile sulla base delle informative che Tramonte, estremista di destra ma anche informatore dei servizi con il nome in codice di Tritone, inviava ai superiori. Ordine Nuovo poté in questo modo attivare i propri depositi di armi ed esplosivi, in primis quello occultato al ristorante Scalinetto a Venezia, nella disponibilità di Maggi e Carlo Digilio, l’armiere dell’organizzazione, dove fu prelevata la gelignite con cui venne confezionato l’ordigno di Brescia.

In questo contesto, grazie al lavoro dell’ispettore capo del Servizio antiterrorismo di Roma, Michele Cacioppo, si è anche riusciti a provare definitivamente l’esistenza della «santa barbara» di Paese, in provincia di Treviso, posta in un casolare gestito da Giovanni Ventura. Il nome di Ventura è di nuovo ricomparso in questo processo. Nella sua agenda, sequestrata nel dicembre 1972 e mai visionata con attenzione, compariva il numero di telefono di Carlo Digilio. Grazie alle ispezioni bancarie si è appurato come i due fossero legati da rapporti economici. Si è così completato un quadro. Ordine Nuovo nel Veneto si articolava in più cellule armate, da quella di Venezia-Mestre, con Maggi, Carlo Digilio e Delfo Zorzi, a quella di Padova, costituitasi attorno alle figure di Franco Freda e di Giovanni Ventura. Una rete eversiva che operò in funzione dello stragismo, da Piazza Fontana a Brescia.

Ora toccherà nuovamente alla Cassazione formulare il giudizio definitivo, in attesa che i nuovi atti investigativi, cui abbiamo accennato, producano i loro effetti individuando altri responsabili. La storia giudiziaria di piazza della Loggia, che si è protratta per 41 anni, non è ancora definitivamente chiusa. Parlare di giustizia potrebbe non avere più molto senso.

Nei precedenti processi, si era comunque riconosciuta la colpevolezza di altri esponenti di Ordine Nuovo: da Carlo Digilio a Marcello Soffiati, non più processabili perché defunti. Ora quelle di Maurizio Tramonte e di Carlo Maria Maggi, ormai ottantenne e malato. Non ci sarà il carcere per lui. Un pezzo di verità in più. Sentenza storica dopo tante assoluzioni. Restano ancora sullo sfondo le responsabilità dello Stato e dei suoi apparati.