Martedì 12 sono 48 anni dalla strage di Piazza Fontana. Quell’attentato del 12 dicembre del 1969, che provocò 17 morti e 87 feriti, continua a trascinare con sé, a tanti anni di distanza, domande e interrogativi. Che cosa accadde veramente quel giorno a Milano?

QUATTRO E NON DUE LE BOMBE?
La mattina del 13 dicembre sulla prima pagina del quotidiano della Democrazia cristiana, Il Popolo, comparve la clamorosa notizia del ritrovamento verso la mezzanotte del giorno prima, «in via Monti», di un «altro ordigno», poi «disinnescato e reso inoffensivo» dagli artificieri. Notizia rimasta senza alcun seguito. «l’Unità», a sua volta, il 18 dicembre, a pochissimi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura, pubblicò in edizione nazionale il resoconto di una conferenza stampa tenuta dagli anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa, con la denuncia del ritrovamento di altre due bombe inesplose, taciute dalla polizia, nella sera stessa del 12 dicembre, una in una caserma militare e l’altra in un grande magazzino. La questura smentì immediatamente.

Su questa vicenda il quotidiano comunista ritornò mesi dopo, il 26 febbraio, scrivendo di «due ordigni» rinvenuti «presso il negozio di abbigliamento della Fimar in corso Vittorio Emanuele» e la «caserma di via La Marmora» (nei pressi di via Monti), denunciando il giorno successivo con un altro pezzo in prima pagina come ai vigili urbani, autori del rinvenimento, e «ai loro dirigenti», fosse stato «imposto il silenzio».

QUALI PROPORZIONI avrebbe dovuto assumere la strage di Milano? Di chi furono le eventuali responsabilità nell’occultamento degli ordigni ritrovati? Domande che meriterebbero una risposta, pur a distanza di tanti anni. Domande non inutili per sapere chi decise di manipolare la verità. Si spiegherebbe finalmente in questo modo anche il motivo dell’acquisto da parte di Franco Freda, riconosciuto come uno dei corresponsabili della strage, di quattro borse a Padova, solo una delle quali fu rinvenuta intatta con dentro la bomba inesplosa alla Banca commerciale di piazza della Scala.

UNA STRAGE ATTESA DA ORE
Anche un’altra concatenazione di fatti, antecedente la strage, non è mai stata sufficientemente indagata. Nel memoriale di Aldo Moro redatto nei cinquantacinque giorni della sua prigionia ad opera delle Brigate rosse, tra il 16 marzo ed il 9 maggio 1978, rinvenuto nell’ottobre del 1990 in via Monte Nevoso a Milano, leggiamo testualmente: «Ma i fatti di Piazza Fontana furono certo di gran lunga più importanti. Io ne fui informato, attonito, a Parigi dove ero insieme con i miei collaboratori in occasione di una seduta importante dell’assemblea del Consiglio d’Europa che per ragioni di turno dovevo presiedere Proprio sul finire della seduta mattutina ci venne tra le mani il terribile comunicato d’agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualcosa di inaudita gravità stesse maturando nel nostro paese.

Le telefonate, intrecciatesi fra Parigi e Roma, nelle ore successive non potettero darci nessun chiarimento Io cercai di sapere qualche cosa, rivolgendomi subito al Presidente Picella, allora segretario Generale della Presidenza della Repubblica, uomo molto posato, centro di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali propri. I suoi erano i canali dello Stato. Alla mia domanda sulla qualifica politica dei fatti, la risposta fu che si trattava di gente appartenente al mondo anarchico».

UN RICORDO SINGOLARE. Come è noto, la strage di Piazza Fontana avvenne solo alcune ore più tardi, alle 16.37. L’Ansa diramò la notizia alle 17.05 e solo nel dispaccio delle 18.30 parlò di una bomba. Si potrà certamente pensare ad un cattivo ricordo anche per le difficili condizioni di prigionia in cui versava Moro.

Ma Moro non fu il solo a ricordare male. Anche Alberto Cecchi, già parlamentare del Pci, nella sua Storia della P2 incorse in un identico infortunio: «In Italia l’inizio del secondo tripudio (quello delle armi e del terrorismo) è contrassegnato da una data e da un’ora: il 12 dicembre 1969, intorno alle 11 del mattino. È la strage di Piazza Fontana».

Forse a monte di tutto c’è una spiegazione molto semplice: già 5 o 6 ore prima in ambienti politici e militari si era diffusa la notizia dell’imminenza di un fatto di eccezionale gravità. L’allarme era già diffuso. Da qui l’anticipazione in alcuni protagonisti politici dell’epoca del ricordo della strage. Andrebbe, sotto questo profilo, ancora una volta ricordato l’interrogatorio reso il 7 settembre 2000 dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, più volte ministro e figura tra le più prestigiose della Dc. Interrogatorio rilasciato nell’ambito delle nuove indagini sulla strage di Piazza Fontana. Uno dei documenti in assoluto più illuminanti proprio sulle ore antecedenti i fatti. «La sera del 12 dicembre1969», disse, «il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del SID Doveva partire per Milano recando l’ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID, il Ten. Col. Del Gaudio». Una ricostruzione ribadita dalla stessa figlia del Dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. «Posso dirvi», ribadì riferendosi al padre, «che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita».

IN QUESTA ULTIMA DEPOSIZIONE la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto sufficientemente. «Mio padre», sostenne, «era un ‘rautiano di ferro’ e ho sempre avuto l’impressione che abbia appreso l’episodio del 12 dicembre non dai servizi ma dalle sue conoscenze di destra». La verità, anche in questa versione, continua a dirci dell’intreccio fra neofascisti ed apparati statali.