«Abbiamo fatto tutta questa strada dall’Afghanistan per vedere se si facesse giustizia. Ma non è stato così. È stata fatta alla maniera americana. Volevamo che l’assassino fosse condannato a morte, ma il nostro desiderio non è stato esaudito». Le parole, piene di rancore, sono quelle di Haji Mohammad Wazir, uno dei sette afghani arrivato negli Stati Uniti per testimoniare al processo che si è tenuto nei giorni scorsi alla Joint Base Lewis-McChord, a sud di Seattle, contro il tenente americano Robert Bales.

Ventotto anni, alla sua prima missione in Afghanistan, reduce da tre missioni in Iraq, l’11 marzo 2012 Robert Bales è uscito dalla base militare in cui prestava servizio con un’arma carica di colpi. Si è diretto nei villaggi del distretto di Panjwayi, provincia di Kandahar. È entrato prima in una casa, poi in un’altra e in un’altra ancora. È tornato alla base lasciando dietro di sé 16 corpi senza vita, tra cui nove bambini e alcuni corpi bruciati. Nelle 32 pagine di ricostruzione dei fatti lette dal procuratore, il colonnello Jay Morse, c’è tutta la feroce efferatezza di Robert Bales, che il 5 giugno scorso si è dichiarato colpevole per evitare la condanna a morte. I sei giudici della corte militare lo hanno condannato all’ergastolo, escludendo la possibilità futura della libertà condizionata. I familiari delle vittime hanno contestato la sentenza e, prima ancora, il fatto che il processo si sia tenuto negli Usa e non in Afghanistan. «Non accettiamo il verdetto. È un pazzo omicida e l’eccidio è avvenuto in Afghanistan. Avrebbe dovuto essere giudicato e processato nel nostro paese», ha sostenuto Abdul Baqi all’agenzia cinese Xinhua. «Se andassi negli Stati Uniti e uccidessi 16 persone e ne ferissi molte altre, il governo americano cosa mi farebbe? Mi estraderebbero in Afghanistan? Di certo, insisterebbero perché sia giudicato negli Stati Uniti», ha chiesto Hajji Sejan, che nella strage ha perso la moglie, il fratello, un nipote e un cugino. Il processo di Robert Bales non fa dunque che evidenziare il dato di fondo di ogni occupazione militare: lo status dei soldati stranieri, che non sono sottoposti alla legge del paese in cui operano. In Afghanistan, vale per gli americani come per gli italiani.

Il soldato italiano che il 3 maggio del 2009 ha ucciso la tredicenne afghana Benafshah sulla strada per Herat (si veda il manifesto del 23 ottobre 2012) è stato giudicato da un tribunale italiano, anche se l’episodio è avvenuto in Afghanistan. Mentre secondo le parole del ministro della Difesa Mauro, il 20enne afghano che l’8 giugno 2013 ha ucciso il capitano Giuseppe La Rosa nella provincia di Farah «verrà trasferito in Italia per essere giudicato». Dunque, un ragazzo afghano che uccide in Afghanistan un soldato italiano viene processato in Italia, secondo le leggi italiane. Mentre un soldato italiano che uccide una ragazzina in Afghanistan non viene giudicato secondo le leggi locali, ma secondo la legge italiana. Vi suona naturale come logica? Ai familiari delle vittime del sergente Robert Bales – così come ai genitori della piccola Benafshah – no. Per Samiullah, «il soldato americano si è comportato come un macellaio e avrebbe dovuto essere giustiziato a Kandahar», riporta l’agenzia cinese. Sua figlia Zardana è sopravvissuta a un colpo in testa: «Era una ragazzina intelligente. Le manca metà cervello. Non è la stessa persona», ha spiegato. Per i genitori della piccola Benafshah, invece, non è rimasto che pregare sulla tomba della figlia, alla periferia di Farah.