I bombardamenti aerei devastavano la Striscia di Gaza già da dieci giorni e quel 16 luglio dello scorso anno non si parlava d’altro che dell’inizio dell’offensiva di terra che le forze armate israeliane davano per imminente. Ma era anche estate e faceva caldo, tanto. Alcuni bambini, cugini e fratelli della famiglia Bakr, avevano deciso di trascorrere quella giornata al mare tirando calci a un pallone e facendo qualche tuffo. Anche per dimenticare la strage che giorno dopo giorno insaguinava la Striscia. Si sentivano al sicuro sulla spiaggia di Gaza city, protetti dagli edifici degli hotel pieni di giornalisti stranieri. Nulla faceva presagire un attacco nella zona considerata la più sicura della Striscia anche se non del tutto immune dai bombardamenti israeliani. All’improvviso un boato. Dalla finestra dell’appartamento del palazzo Abu Ghalion che ci ospitava in quei giorni, vedemmo un’alta colonna di fumo marroncino alzarsi da un punto alle spalle dell’Adam Hotel. Pochi secondi dopo un altro boato. Ci precipitammo in strada e, assieme a tanti altri, corremmo verso la spiaggia. Due bambini feriti si erano rifugiati tra le braccia di colleghi che alloggiavano al Deeira Hotel, accanto al luogo delle esplosioni. Un giovane, avrà avuto 20 anni, si trascinava insanguinato. Poco lontano Ahed, 10 anni, Zakaria 10, Ismail 11 e Mohammad 9, erano già morti.

 

Erano caduti due missili. Il primo sganciato dall’aviazione israeliana (dalla marina, secondo un’altra versione) aveva colpito il container coperto da una tenda dove i bambini di tanto in tanto giocavano a nascondino e si riparavano dal sole cocente. A provocare la strage fu il secondo, sparato contro i piccoli che scappavano, scambiati, disse il portavoce militare, per militanti armati di Hamas pronti ad organizzare un attacco. Un “errore di identificazione”, aggiunse. Eppure l’esile fisionomia dei bambini era evidente, come si poteva scambiarli per adulti in possesso di armi. A pochi metri da noi vedemmo passare l’ultimo dei piccoli uccisi, portato via dai soccorritori. Il corpo annerito e nudo, il calore dell’esplosione aveva bruciato gli abiti. Scattammo qualche foto, combattuti tra l’obbligo della testimonianza giornalistica e il rimorso per non aver avuto abbastanza rispetto per quel piccolo corpo senza più vita. L’accaduto fece il giro del mondo e quei bambini fatti a pezzi divennero un simbolo della mattanza di civili palestinesi che ha segnato i 50 giorni più duri mai vissuti dalla Striscia di Gaza, già teatro di altre due offensive israeliane avvenute alla fine del 2008 e nel 2012.

 

Due giorni fa la magistratura militare israeliana, a meno di un mese dal primo anniversario dell’inizio dell’operazione “Margine Protettivo”, ha chiuso l’inchiesta interna sulla morte di Ahed, Zakaria, Ismail e Mohammad. Fu un “errore di identificazione”, spiega la motivazione data dalla procura militare, proprio come aveva affermato un anno fa il portavoce delle forze armate. I soldati ed ufficiali coinvolti avrebbero soltanto fatto il loro dovere. Pensavano di avere davanti uomini di Hamas, invece erano bambini. Tutto qui, caso chiuso. «Il 16 luglio – è scritto nel comunicato diffuso da Israele due giorni fa – la sorveglianza aerea aveva identificato alcune figure (di Hamas, ndr)». Di fronte a questa «minaccia», prosegue il comunicato, è stato deciso «di lanciare l’attacco aereo perchè in nessun momento (quelle figure umane, ndr) erano state identificate con dei bambini». Invece erano i piccoli Bakr che giocavano a nascondino e davano calci al pallone nelle ultime ore della loro esistenza che non hanno potuto vivere per un “errore di identificazione”.

 

L’esercito israeliano si è assolto, si è proclamato innocente e ritiene di aver chiuso per sempre questo caso. Ma l’uccisione dei quattro bambini della famiglia Bakr è una delle vicende di “Margine Protettivo” che i palestinesi si accingono (pare) a sottoporre al giudizio della Corte penale internazionale (Cpi) che esaminerà anche gli attacchi con razzi verso Israele compiuti da Hamas e da altre organizzazioni armate. Ed è probabile che i palestinesi faranno lo stesso per altri massacri che la magistratura militare israeliana ha già chiuso: la morte di 15 persone nell’edificio al-Salam e la strage della famiglia al-Najar a Khan Yunis. Forse conteranno anche le testimonianze, per ora solo in forma anonima, fornite da decine di ufficiali e soldati e pubblicate a maggio in un rapporto della ong “Breaking the Silence”. Racconti che riferiscono dell’impiego da parte dell’esercito israeliano del massimo della forza anche contro i civili palestinesi, pur di eliminare ogni tipo di rischio.

 

La magistratura militare starebbe ancora svolgendo indagini su altri tre casi di “Margine Protettivo”: l’uccisione di nove palestinesi nell’attacco a un caffé a Khan Yunis (9 luglio), violenze su di un detenuto (a Juhor a-Dik, 28 luglio) e sull’apertura illegale del fuoco verso un ospedale (23 luglio). Intenderebbe inoltre indagare anche su un saccheggio compiuto da soldati a Shajayea (20 luglio). Ma solo lo svolgimento di una inchiesta internazionale imparziale potrà fare piena luce sulle stragi della scorsa estate.