Non cessano di piovere le bombe firmate dalla coalizione dei volenterosi su Iraq e Siria. Ieri i raid hanno colpito l’area intorno alla città curda siriana di Kobane, da due settimane assediata dai jihadisti e difesa dai combattenti curdi arrivati anche dalla Turchia. Le milizie qaediste sarebbero a meno di tre km da Kobane, dopo aver conquistato 60 villaggi alla sua periferia. Dalla città, di enorme importanza strategica e geografica, si alzano colonne di fumo e i bombardamenti risuonano insieme ai boati dei jet da guerra Usa.

Ma i jihadisti non colpiscono solo nelle province occupate irachene o a nord della Siria: la capacità di infiltrarsi in tutto il territorio siriano è dimostrata dalle due autobomba che ieri sono saltate in aria nel città di Homs (tornata nelle mani del regime dopo due anni di controllo delle opposizioni), nel quartiere alawita di Akrameh, vicino ad una scuola e un ospedale. Diciotto i morti, di cui la maggior parte bambini.

L’avanzata verso Kobane – la cui caduta permetterebbe alle milizie di al-Baghdadi di controllare il corridoio di terra da Aleppo a Raqqa – ha provocato la fuga disperata di centinaia di migliaia di persone, tutte ammassatesi al confine con la Turchia che, dopo aver aperto i valichi, li ha richiusi per l’ingente numero di profughi: le immagini dai valichi raccontano la disperazione di chi è fuggito a piedi o con mezzi di fortuna e la loro rabbia nel vedersi respinti dall’esercito turco che pattuglia l’area.

Ma l’avanzata ha provocato anche un terremoto ad Ankara: dopo aver sorpreso gli alleati del Patto Atlantico con un passo indietro – il presidente Erdogan aveva offerto alla coalizione anti-Isis l’uso delle proprie basi militari ma solo a fini umanitari – la pressione alla frontiera sta costringendo il governo a ripensare il proprio intervento, soprattutto alla luce dell’arrivo di decine di combattenti del Pkk a sostegno della comunità curda siriana.

Dopo la promessa di Erdogan di creare una zona cuscinetto militarizzata alla frontiera, ieri il parlamento è stato chiamato a votare sulle modalità di intervento diretto nel conflitto, ovvero su operazioni di terra in Siria e Iraq: l’invio della fanteria, l’utilizzo delle basi per fini militari e la creazione di una no-fly zone sui cieli siriani. A spingere la Turchia all’azione è la minaccia diretta che oggi Ankara affronta: quei gruppi islamisti ingrassati dal passaggio di armi e denaro dai porosi confini turchi ora sono diventati nemici temibili, una punizione da contrappasso dantesco. Dopo la conquista di 325 comunità al confine turco-siriano da parte dell’Isis, i jihadisti puntano alla tomba di Suleiman ad Aleppo, monumento turco di estrema importanza simbolica.

Erdogan ieri ha voluto precisare che l’intervento turco è volto a cercare soluzioni di lungo periodo che comprendano la caduta di Assad. Va bene combattere l’Isis, ma solo se con al-Baghdadi scompare anche il presidente siriano. Tale ampliamento del raggio di azione della coalizione sembra ormai regionale.

La misura è data dall’annuncio del presidente egiziano al-Sisi che ha offerto alla Libia l’addestramento delle forze pro-governative contro gli islamisti che occupano Tripoli e ieri hanno rifiutato la mediazione Onu che ha tentato di portare al tavolo del negoziato i due attuali governi libici. Una presa di posizione che indica da una parte il tentativo egiziano di riprendersi quel ruolo di leader regionale perso in tre anni di rivolte e colpi di stato, e dall’altro la volontà del presidente golpista di agire contro gli odiati movimenti islamisti coprendosi sotto l’ombrello della guerra all’Isis.

Al-Sisi è stato chiaro: le milizie jihadiste che operano in Sinai e nella Cirenaica libica (in primis Ansar Beit al-Maqdis) sono addestrate e rifornite dallo Stato Islamico. Un gruppo unico, secondo il Cairo, che giustifica un intervento nella vicina Libia. Da almeno due mesi funzionari egiziani hanno incontri regolari con rappresentanti pro-governativi, gli esiliati a Tobruk. E per raggiungere lo scopo, dicono fonti interne all’intelligence egiziana, al-Sisi non disprezzerebbe un contatto anche con l’ex generale libico Haftar, impegnato da maggio in una campagna anti-islamista che ha aperto le porte dell’attuale crisi interna.

Alla fine, però, quello che traspare è la frammentazione di metodo e obiettivi della variegata coalizione a cui fa da contraltare la disciplina dei miliziani dell’Isis. Il Pentagono invoca pazienza mentre attentati continuano ad uccidere nelle città sciite irachene (quasi 4.000 i morti a settembre, 11 ieri nel quartiere sciita Mahmoudiya a Baghdad) e esplosioni risuonano anche in Siria. Al-Baghdadi, da parte sua, prosegue indisturbato i suoi affari. È di ieri l’allarme dell’Unesco: uno dei metodi di finanziamento dell’Isis è diventato il contrabbando in Europa, via Giordania e Turchia, di manufatti antichi iracheni, grave minaccia all’eredità archeologica di uno dei paesi culla della civiltà mediorientale.