È una fredda mattina del febbraio del 2014. Al ministero degli interni spagnolo siede Jorge Fernández Díaz, un fedelissimo di Mariano Rajoy, artefice delle cosiddette «cloache di stato» (una sorta di servizi deviati al servizio del Pp), implacabile responsabile delle politiche di «deportazione sommaria« dei migranti che riescono a penetrare nelle enclavi di Ceuta e Melilla: in sostanza, rimandare indietro i migranti senza identificarli o dar loro la possibilità di fare domanda di asilo, come impongono i trattati internazionali. Fino a quel giorno il Pp, al potere dal 2011 aveva negato l’esistenza di queste pratiche. Ma quel giorno un paio di centinaia di migranti tentarono di superare la frontiera spagnola con il Marocco a nuoto, passando dal mare nella zona del El Tarajal. La Guardia Civil reagì in maniera scoordinata e sproporzionata, sorpresa dalle modalità di azione del gruppo che aveva tentato, alle 7 di mattino, ancora con il buio, di superare una delle frontiere dove la differenza di ricchezza fra i due lati è fra le più alte al mondo. 15 migranti erano morti affogati, 16 poliziotti sono indagati da allora.

Ieri, grazie a una rivelazione del quotidiano El Confidencial, confermata da eldiario.es, si è scoperto che l’Avvocatura dello stato ha chiesto alla giudice delle indagini preliminari María de la Luz Lozano Gago di scagionare i sedici agenti con la sorprendente motivazione che «non si è verificato nessun decesso dal lato spagnolo».

Vale la pena ricordare come sono andati i fatti, seguendo la ricostruzione grafica fatta dallo stesso quotidiano digitale eldiario.es. Quella mattina alle sei meno un quarto si muove il gruppo di persone dal lato marocchino della frontiera; la Guardia Civil si organizza per respingere l’attacco. La polizia marocchina cerca di fermarli, loro si preparano con salvagenti di fortuna e pneumatici, mentre gli agenti spagnoli si aspettavano un attraversamento di corsa. Loro si buttano in mare, la polizia marocchina cerca di fermarli, e la polizia spagnola dispone su un frangiflutti lungo il confine, armati fino ai denti con materiale antisommossa. A quel punto iniziano a sparare all’impazzata, lanciare bombole di fumo e pallottole di gomma. Momenti di panico, molti dei migranti non sanno nuotare, le pallottole, il fumo, il gas li stordiscono. Alcuni riescono ad arrivare dall’altro lato, dove vengono subito intercettati e rimandati indietro sommariamente, ma molti affogano. I cadaveri non vengono neppure recuperati quel giorno, alcuni torneranno dal lato spagnolo solo giorno dopo. Nella successiva dichiarazione di Fernández Díaz al Congresso è la prima volta che ammette le pratiche di «deportazione sommaria».

«Benché sia vero che la protezione della frontiera si attiva nel caso di tentativi di entrata illegale, questo non può giustificare che si possa intendere, neppure remotamente, che le frontiere siano zone di eccezione in relazione ai diritti umani», scrive la giudice. E ricorda che, con il lancio di armi «con effetto dissuasorio«, gli agenti poterono «contribuire, co-causalmente o per imprudenza, alla morte per affogamento» dei migranti e che avrebbero potuto intervenire per aiutarli ma si astennero dal farlo, «senza motivo che giustifichi questa omissione».
Invece l’Avvocatura dice che i 23 migranti sopravvissuti all’attacco «raggiunsero la spiaggia ceutí del Tarajal, o per mezzi proprio o aiutati dai servizi marittimi, lo fecero in perfetto stato di salute e per questo motivo poterono essere respinti alla frontiera in maniera immediata». E avalla la versione del governo di allora: gli agenti dovettero fermare «una valanga» che cercava di arrivare a Ceuta «in maniera violenta».