L’ennesima strage che macchia di sangue il pellegrinaggio dell’Hajj: il bilancio, ieri sera, era di 717 morti e 830 feriti, vittime della calca scoppiata nella città saudita di Mina dove si svolgeva uno dei riti del primo giorno di Eid al-Adha, la Festa del Sacrificio.

Schiacciati dalla folla, un massacro. La strada 204 è coperta di cadaveri, intorno migliaia di soccorritori e 200 ambulanze. Video amatoriali mostrano i sopravvissuti camminare tra corpi senza vita, tutti vestiti di bianco, e tra sedie a rotelle distrutte, usate dai fedeli disabili. È l’immagine che ieri giungeva da Mina, a 5 km dalla Mecca, detta la città delle tende: 160mila tende ospitano durante la notte i pellegrini che di giorno partecipano al rito simbolico della lapidazione di Satana, un lancio di sassi contro tre colonne di pietra. All’evento prendono parte ogni anno tra i 2 e i 3 milioni di fedeli.

Immediata la giustificazione di Riyadh: il ministro della Salute, Khaled al-Faleh, imputa la strage agli stessi pellegrini che, nonostante le istruzioni fornite, «si muovono senza rispettare gli orari fissati, sono indisciplinati, soprattutto fedeli di nazionalità africane». Secondo la protezione civile, due gruppi si sarebbero trovati nello stesso momento all’incrocio tra due strade, la 204 e la 223, vicino al ponte Jamarat, dal quale si vedono le colonne contro le quali avviene il lancio di pietre.

Ma sono molte le voci contrarie: l’Iran (tra i morti ci sono 89 cittadini iraniani) ha puntato il dito sugli errori commessi dalla macchina della sicurezza saudita. Secondo Said Ohadi, responsabile dell’organizzazione dell’Hajj per l’Iran, i sauditi hanno chiuso due strade impendendo il normale afflusso dei fedeli. Che, intrappolati, sono rimasti schiacciati. Calpestati nella fuga, peggiorata dal panico generato dalla calca, versione confermata da testimoni: «Il tunnel di uscita era chiuso dalle autorità e la gente ha dovuto usare lo stesso tunnel per entrare e uscire – racconta al The Guardian Bashaar Jamil – I sauditi non hanno investito nella sicurezza: non ci sono bagni per disabili, accessi per gli anziani, vie di fuga».

«L’incidente di oggi mostra la cattiva gestione e la mancanza di attenzione alla sicurezza dei pellegrini – ha aggiunto Ohadi, mentre Teheran convocava l’ambasciatore saudita – I funzionari sauditi devono essere chiamati a risponderne».

A pesare sulle spalle della petromonarchia c’è una lunga lista di incidenti simili, quasi tutti verificatisi a Mina. Dal 1990 ad oggi il numero di pellegrini morti durante l’Hajj ammonta a 2.800. La peggiore strage risale proprio a quell’anno, al 1990, quando a restare uccise furono 1.426 persone. E ne sono seguite tante altre: 270 nel 1994, 343 nel 1997, 180 nel 1998, 35 nel 2001, 14 nel 2003, 251 nel 2004, 364 nel 2006. Prima, nel 1987 400 persone morirono per scontri tra manifestanti iraniani e forze saudite; altre 200 nel 1975 per un incendio tra le tende di Mina.

E, due settimane fa, a bagnare di sangue la vigilia del pellegrinaggio era stata la caduta di una gru sopra la Grande Moschea della Mecca: 109 vittime a cui Riyadh ha reagito stracciando il contratto con la compagnia responsabile dei lavori, la Binladin Group (fondata dal padre di Osama Bin Laden), gigante delle costruzioni. Incidenti che creano il dovuto imbarazzo ad un paese che si definisce protettore dei luoghi santi e che da decenni si dimostra incapace di amministrare due milioni di pellegrini, non certo un numero ingestibile se si pensa a eventi simili in altre parti del mondo. E soprattutto se si pensa agli introiti incassati da Riyadh durante i cinque giorni di pellegrinaggio, pilastro dell’Islam. Le accuse da parte di attivisti ieri piovevano sul governo: la corruzione avrebbe mangiato buona parte del budget previsto per la messa in sicurezza dell’evento.

A pesare è il silenzio di tomba intorno alle ripetute stragi: dopo ogni incidente il governo saudita ha svolto indagini poco accurate, facendo calare il silenzio o limitandosi ad accusare i pellegrini di indisciplina. In serata il principe Mohammed bin Nayef ha ordinato l’apertura di un’inchiesta per verificare perché le procedure non sono state seguite. Di certo c’è che il sistema di controllo computerizzato, installato dalla società britannica CrowdVision dopo l’ultima tragedia, nel 2006, non avrebbe evitato la nuova strage perché non copre il luogo dell’incidente, diverso dai precedenti. Come non è stata evitata dai lavori compiuti per migliorare il ponte Jamarat: più che di infrastrutture nuove, secondo gli esperti, ci sarebbe bisogno di un’organizzazione migliore per garantire la sicurezza.