«Qual era la domanda? Mi fanno sempre le solite domande del cavolo e, sai, la tua risposta diventa proprio come quando dai un colpetto al ginocchio, un riflesso», gli diceva in una conversazione del 2015 Raymond Pettibon, l’artista americano famoso per le copertine degli albumi di gruppi hardcore punk e rock alternativo, tra cui i Black Flag, i Minutemen e i Sonic Youth. Di fronte a quest’affermazione qualsiasi intervistatore si sarebbe arreso, sentendosi parte di un gioco industriale finalizzato solo ad alimentare la macchina, con domande più o meno cretine e risposte più o meno in automatico, ma Robert Storr ne ha fatto una specie di banco di prova, per esplorare le potenzialità dell’intervista ai fini della comprensione di un mondo nel suo insieme. Interviste sull’arte (traduzione dell’originale Interviews on Art, edito da Heni Publishing a Londra nel 2017) è il risultato di questa sfida, con trenta interviste (a fronte delle sessantuno dell’originale) ad alcuni tra gli artisti contemporanei più famosi e influenti, da Louise Bourgeois a Gerhard Richter, per citare solo i due nomi forse più iconici presenti nel libro (Interviste sull’arte, a cura di Francesca Pietropaolo, il Saggiatore, pp. 415, con un bel numero di tavole fuori testo, euro 38,00).
A dispetto dell’inevitabile struttura a scatole separate, con ogni intervista leggibile come unità a sé stante, il libro vuole essere anche un quadro dell’arte contemporanea, costruito per frammenti che si riallacciano nei modi più vari, fino a costituire una costellazione, benjaminianamente: una mappatura dell’esperienza, fatta di un «gruppo di elementi giustapposti e non integrati, che si oppongono alla riduzione a un comun denominatore», come ebbe a dire Adorno, ma che pure si incontrano e scontrano in una continua operazione di montaggio reciproco, posizionandosi gli uni rispetto agli altri come schegge di un insieme non discorsivo eppure interrelato.
«Arte contemporanea» è del resto più che una definizione un contenitore, nel quale il contenuto (partecipare al gioco) conta di solito più del contenente (le regole del gioco), fino a poter dire che l’importante è stare dentro il contenitore anziché collocarsi rispetto a esso. Le cose potrebbero star cambiando, però, sostiene nel libro uno degli artisti più filosofi della contemporaneità, Pierre Huyghe, che pensa all’arte come un lavoro di reazione alle circostanze, cercando di capire «tutto quello che si è sedimentato intorno»: ««Ciò che faccio – dice nella sua intervista, del giugno 2013 – deve confrontarsi con una serie di regole e condizioni ambientali». Di fatto tutti gli artisti, nel momento in cui dialogavano con Storr, hanno dovuto porsi dentro regole e condizioni ambientali, che li definivano prima di tutto come artisti e poi come artisti contemporanei. A dettare le regole era lo stesso Storr, già senior curator al MoMA di New York, direttore artistico della Biennale di Venezia e rettore della Yale University School of Art, oltre che pittore in prima persona, che con le sue domande cerca sempre di definire il campo, come se l’arte fosse prima di tutto il confronto con un’idea: «Cosa mi dici dell’accettare le cose per come sono, e non per come potrebbero essere ricreate?» (a Olga Chernysheva), «Cosa pensi della questione di impegnarsi esplicitamente in forme sociali di produzione artistica?» (a Félix González-Torres), oppure «Cosa intendi con grandi conflitti morali?» (a Jeff Koons) sono esempi di un metodo induttivo, che parte dall’esperienza personale per cercare un senso teorico.
Se al centro di ciascuna intervista ci sono le ossessioni di ogni singolo artista, in una chiave prima di tutto esistenziale, a tenere insieme l’idea del libro è proprio il concetto stesso d’intervista, come luogo, maieutico, in cui la presenza di un interlocutore costringe l’artista a trasformare il piano dell’esperienza, soggettiva, in un piano di comunicazione, intersoggettiva. Col Bachtin dell’epigrafe: «Nel linguaggio, quando ha un significato, qualcuno parla con qualcun altro, anche quando quel qualcun altro è il proprio destinatario interiore». Perché il ventriloquio diventi strumento di dialogo.
Lontanissimo dall’aneddottica e dal pettegolezzo che dominano il mondo dell’arte dei viventi, l’intervistatore va sempre alla ricerca delle grandi questioni che stanno alla scaturigine del bisogno d’arte, col rischio a volte di far prevalere l’aspetto teorico sul concreto operare degli artisti, come se le scelte dei generi, delle forme, dei materiali e dei mezzi espressivi fossero comunque meno importanti dell’orizzonte di senso entro cui si inseriscono anziché tutt’uno con esso; ma la varietà degli interlocutori fa certamente da antidoto a questo rischio, consentendo al lettore di spaziare tra ricordi personali, dichiarazioni di modelli, descrizioni di opere, reticenze (poche: tutti molto loquaci, gli artisti d’oggi) e proclami (molti, perché sembra che l’artista non abbia più senso se non si fa anche un po’ guru). In fondo al libro, infatti, e per fortuna, non ci sono le biografie degli intervistati, come pure avrebbe avuto senso per presentarli al lettore che non li conosce, né un lemmario di parole-chiave per ricostruire i fili della ragnatela, come magari avrebbe gradito un lettore più accademicamente orientato, ma delle splendide tavole con le fotografie di alcune delle loro opere, a rappresentare, autobiograficamente, l’artista attraverso il suo lavoro.
Una vera e propria full immersion nell’arte contemporanea, dunque, in quello che è insieme: un libro sull’arte contemporanea, un libro sulla strategia dell’intervista e un libro sulla filosofia dell’arte. Fino a una proposta forte per l’arte a venire, contenuta in un’affermazione di Jack Whitten, il pittore e scultore astrattista nero che ascoltò Martin Luther King e partecipò alle sue battaglie negli anni sessanta e settanta, con cui il libro si conclude: per un’arte che non prelevi «campioni regressivi di riferimenti alla storia dell’arte», ma sia lavoro costante di costruzione della realtà, perché ogni gesto, estetico come linguistico, si apre la strada verso il futuro indefinito, pre-dicendo l’avvenire.