Che cosa hanno in comune i cineasti Wang Bing e Avi Mograbi? Ad un primo sguardo, non molto. L’uno è cinese, l’altro israeliano. Avi Mograbi si mette volentieri davanti alla macchina da presa. Wang Bing osa appena filmare la propria ombra. Tutti e due hanno un film a Berlino (Forum): Ta’ang e Beetwen the Fences. Non è molto come legame. Aggiungiamo allora che entrambi i film hanno come protagonisti dei rifugiati.

 
Wang Bing è un cineasta imprevedibile. Chi lo produce, lo sa bene. Viene spesso in Europa, a Parigi in particolare, con un progetto. L’ultimo era quello di filmare il ritorno a casa di giovani operai dello Yunnan. Sradicati dalle campagne dove sono nati e cresciuti, centinaia di migliaia di giovani cercano fortuna nelle grandi città. Trovano lavori umili e salari da fame. A capodanno ritornano nelle gole incantate del paese «a sud delle nuvole». È questo ritorno a casa che Wang Bing si era ripromesso di filmare. Forse un giorno vedremo questo film. Ma non questo febbraio, non al prossimo Forum della Berlinale. Quello che il cineasta in giacca a vento porterà a Berlino è un film che si è imposto mentre stava realizzando l’altro.

 

 

Del tutto casualmente, mentre girava per villaggi dello Yunnan, Wang Bing ha incontrato una donna che lo ha incuriosito. Non apparteneva all’etnia Han, come gli altri. Chiaramente in disparte, la donna non faceva parte della comunità. Era un’immigrata clandestina, appartenente al popolo Ta’ang che dà nome al film. Altri cineasti si sarebbero forse detti: interessante, ma ora ho un altro film da fare. Wang Bing invece ha lasciato in sospeso il film che stava girando per correre dietro a questo personaggio misterioso. Seguendo la donna, si è spostato verso la frontiera con la Birmania (Myanmar) dove Wang Bing ha scoperto due campi di rifugiati, vittime della guerra civile che imperversa nella provincia del Kokang.

 

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I film del regista cinese hanno la tendenza a installarsi in una struttura, se possibile gigantesca e opprimente: la città-fabbrica di West of the Tracks, l’ospedale di Feng Ai. Oppure immensa e sublime, come le montagne delle Tre Sorelle dello Yunnan. Ma in questa struttura sovraumana, nel cuore dello smisurato, WB trova sempre l’uomo (o la donna). Il suo cinema in fondo non dice altro: la storia di una persona, davanti alla macchina da presa, ha la stessa massa di una totalità.

 
Perché ? Perché una persona racconta una storia, la sua. Ma una storia, in quanto singola, esprime una condizione umana infinita. Anche qui è il racconto che tiene insieme il film, il divenire romanzo del documentario.
Niente è più rischioso che tentare una generalizzazione ma, con molta prudenza, si potrebbe avanzare l’ipotesi che Wang Bing, con i suoi film, reagisca istintivamente ad un’ideologia: quella che schiaccia il singolo nella totalità. Come far esprimere in un singolo un tutto che in quanto tutto non sopprime la particolarità?

 
È un problema che si pone anche il film di Avi Mograbi. Between the Fences racconta un’impresa. Un cineasta e un regista teatrale vogliono mettere in piedi un atelier di teatro con dei rifugiati richiedenti asilo. I rifugiati vengono per lo più dal corno d’Africa. Cercano una via di uscita dalla guerra e pensano di trovare rifugio in Israele. Ma Israele non li vuole. Per cercare di dissuaderli e sperando che facciano dietrofront, li tiene in un limbo nel deserto, vicino alla frontiera con l’Egitto.

 
Avi Mograbi cerca di far esprimere loro la propria storia. L’idea è quella di provocare, nel pubblico israeliano, un legame. Loro (i rifugiati) sono come il popolo che ha fondato Israele, fuggendo dalla morte certa in Europa. Per far questo, l’idea è di utilizzare il teatro. E in particolare la tecnica del teatro degli oppressi sviluppata dal regista brasiliano Augusto Boal.

 

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Questo era il progetto iniziale. Ora tra il progetto e il risultato, c’è più di un ostacolo. Ostacoli tecnici, ostacoli umani, ostacoli ideologici. Il più importante è quello di far intendere il legame tra storie diverse, rifugiati di ieri e di oggi, senza eliminare le differenze. Between the Fences non sarebbe un film di Avi Mograbi se, più che raccontare quello che il cineasta si era riproposto di mostrare, non filmasse l’autodafè dell’idea iniziale (e come dalle ceneri di quest’idea è nato un film).

 
In questa furia del dileguare, Avi e Wang sono fratelli: il loro fiuto di cineasti li porta sempre a seguire l’odore di bruciato, a mettersi nelle mani di persone che, mandando all’aria il film previsto, lo salveranno.