Cultura

Storie per reinventare il presente

Storie per reinventare il presente

SENTIERI Dal 25 al 28 di luglio la nuova edizione del Festival delle culture popolari di Collelongo, in Abruzzo. Molti gli ospiti, da Ascanio Celestini a Ginevra Di Marco. Infine verrà ricordata Giovanna Marini. Oltre ai concerti nelle strade del paese, ci saranno laboratori di storia orale, canzone narrativa, organetto e musica d’insieme, danze popolari e tavole rotonde. Partecipano realtà del territorio, ricercatori e attivisti abruzzesi, molisani e lucani che lavorano sui temi della montagna, delle aree interne, dell’agricoltura, delle migrazioni

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 19 luglio 2024

Il 2 maggio scorso avevo appuntamento con le bambine e i bambini della scuola primaria di Collelongo, ai margini del Parco Nazionale degli Abruzzi. Dovevamo parlare di storie e di fiabe, e magari impiantare un lavoro da fare insieme. Collelongo è il posto dove da quattro anni il Circolo Gianni Bosio organizza uno spartano e avventuroso Festival delle Culture Popolari. Quest’anno si svolgerà dal 25 al 28 luglio, e ci saranno Ascanio Celestini, Ginevra Di Marco, Alessio Lega sul palco principale, e poi concerti nelle strade del paese con Daniela Ippolito, Mario Salvi, Susanna Buffa, Alessandro Garramone, Gaetano Rossi. Ci saranno laboratori di storia orale, canzone narrativa, organetto e musica d’insieme, danze popolari; ci saranno tavole rotonde dove ricorderemo insieme Giovanna Marini, parleremo della memoria dei luoghi, della guerra, della Resistenza.

E DOPO UNA PASSEGGIATA accompagnata da musica e racconti con Marcello Sacerdote, ci ritroveremo nel meraviglioso «lavandeto», la piantagione di lavanda che è il luogo più suggestivo (e il progetto economico più concreto) del paese, per ascoltare le storie dei bambini, vedere insieme La principessa Cincillà (una fiaba diventata teatro, con Chiara Lombardi), e partecipare al concerto\lezione al tramonto di Daniela Ippolito con l’arpa lucana.
Quel giorno, sono arrivato, le maestre hanno radunato i bambini, ho raccontato una storia per rompere il ghiaccio, poi gli ho chiesto se ne avevano loro da raccontare. E qui è successo l’imprevisto, perché invece di raccontare fiabe e storie tradizionali, i bambini si sono scatenati a inventare storie nuove. Le idee le prendevano, come sempre nella tradizione orale, dove capitava: dalla televisione, dalla cronaca, dalle storie dei nonni, senza separare il fiabesco dal quotidiano, i protagonisti possono essere tanto zebre e ippopotami quanto automobili e supermercati. Alcune storie erano più strutturate di altre, ma la cosa importante non erano tanto le storie in sé, quanto il processo creativo in atto, la presa di parola, l’affermazione del diritto a avere una voce, e a essere ascoltati. Hanno fatto a gara tutta la mattina a inventare, e non hanno smesso neanche dopo. Un paio di storie ci sono arrivate scritte sui fogli di quaderno: una fantascientifica storia di amicizia fra un bambino smarrito in un pianeta non suo e un alieno che lo accoglie («diventammo buoni amici anche se parlava una lingua diversa dalla mia»), sancita da un selfie per ricordo. O una partita di calcio dove una bambina e un bambino, esclusi dal gioco, si prendono una clamorosa rivincita.

IL FESTIVAL delle culture popolari di Collelongo è fatto di storie così: reinventare il presente con gli strumenti che abbiamo conservato dalla storia. Con gli anni, è diventato un evento sempre più comunitario, condiviso fra il paese e i visitatori che vengono ormai da tutta Italia e il paese. Fin dall’inizio, il Festival si è fatto con poco o niente: il lavoro volontario, la disponibilità di artisti e collaboratori a venire a costi accessibili, la certezza che economicamente il Circolo ci rimette ma sotto ogni altro aspetto ci guadagna immensamente. Regione e provincia, politicamente poco amici, rifiutano di sostenerlo, gli sponsor locali danno qualche elemosina, ma col tempo la gente di Collelongo ha cominciato a riconoscerlo come cosa propria ed è questo che lo rende possibile. Il comune, ci mette quello che può con i mezzi che ha, e ci mette la logistica e altri preziosi sostegni indiretti: le cene le organizzano le signore del paese, la Pro Loco, e il comitato organizzatore delle feste patronali. Alle tavole rotonde, inaugurate dalla sindaca Rosanna Salucci, partecipano realtà del territorio e ricercatori e attivisti abruzzesi, molisani e lucani, che lavorano sui temi della montagna, delle aree interne, dell’agricoltura, della pastorizia, delle migrazioni. Un evento che ha sempre un pubblico folto sono le proiezioni in piazza delle foto storiche di Collelongo (la memoria storica di Collelongo sarà al centro di un’altra tavola rotonda, sulla memoria dei prigionieri alleati aiutati dalla gente di Collellongo e Villavallelonga). Il Comitato feste del paese collabora al Festival e ne approfitta per organizzare e promuovere la festa patronale di San Rocco. E il mercato di prodotti locali in piazza è gestito da un gruppo che porta il meraviglioso nome di «Resistenza Agricola Marsicana».
I bambini poi hanno chiesto ai nonni e ai genitori di raccontargli a loro volta delle storie. E anche qui, l’esito è sorprendente: nessuno ha raccontato fiabe o storie tradizionali. Già i bambini stessi ci avevano fatto capire che la «tradizione» della cultura popolare non consiste tanto nel continuare a ricordare le storie antiche ma nella capacità di continuare a inventarne di nuove.

I NONNI FORSE non inventavano – almeno non sempre; comunque i loro racconti coinvolgevano direttamente i bambini e i luoghi come protagonisti: dopo tutto, il più fiabesco dei personaggi, il lupo, è anche una presenza reale e concreta nella vita del paese. Così, un nonno racconta alla nipotina di quando lei e i suoi fratelli vennero rapiti da un drago (che diventa un lupo nella versione della bambina) e lui li salvò con la spada magica, il cavallo e il cane; una nonna racconta di uno spray miracoloso che, invece delle zanzare, caccia i cattivi dinosauri usciti dagli incubi, così la bambina può fare un pigiama party con le principesse venute dai sogni. La più emblematica è una storia che non ha nulla di fiabesco: una quercia piantata dai bisnonni, bruciata da un fulmine, amorosamente sradicata e ripiantata altrove, che torna a dare rami su cui si arrampicano i bambini – se c’è una metafora dell’insopprimibilità della cultura popolare, che le radici le mette dove può ed è pronta a cambiarle, è questa: «quella pianta, che pure era stata bruciata, aveva avuto la forza di crescere dalla base di nuovo e cacciare dei rami». Il Festival delle Culture Popolari di Collelongo è un luogo dove questa resistenza diventa festa. E alla fine, la Libera Pupazzeria di Fontecchio ci chiama tutti in piazza, con l’organetto di Mario Salvi che accompagna il ballo (letteralmente) esplosivo della Pupazza, un altro effimero e sempre rinato simbolo di una cultura popolare capace, come il nostro Festival e il paese di Collelongo, di accoglierci e renderci felici.

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– SCHEDA –

RACCONTI. La quercia che non muore

di Alessandro Portelli

Mi racconti una storia?
– Sì, ti racconto una storia. È la storia di una quercia; una quercia che i nonni di nonna Nicoletta diedero a sua madre, nonna Mariuccia. Perché? La quercia nell’economia del paese, della gente che ci sta, è una pianta molto molto importante. Perché intanto fa le ghiande, e le ghiande le mangiano gli animali, ma le mangiano pure i maiali. I maiali sono animali che tutte le famiglie avevano per sé e li allevavano, li alimentavano fino poi a utilizzarli come carne, come prosciutto, come ventresca, come tutte quelle altre cose lì. E la quercia, tra l’altro, serve per utilizzare una caratteristica delle querce. Tutte le piante non sempreverdi perdono le foglie d’inverno. La quercia no. La quercia no: le perde a primavera. Sì, facci caso tu quando arriva l’autunno, e vedrai che queste querce che stanno qua sotto a casa nostra mantengono le foglie. Perché è importante? Perché le foglie erano l’unica, l’unica materia che si poteva dar da mangiare durante l’inverno. A chi? Alle capre in particolare, ma anche alle pecore, perché durante l’inverno i contadini rimettevano nella stalla, nel fienile, il fieno in abbondanza per poter alimentare i propri animali, oppure bisognava andare in transumanza fino nelle Puglie, dove l’inverno era più mite per coltivare. E c’era il diritto civico di utilizzo della foglia, cioè tutti gli abitanti residenti di Collelongo avevano diritto di tagliare i rami piccoli delle querce, fare dei fasci, delle fascine, e quelle fascine erano rami sì, ma ricche di foglie. Le foglie non cadono e quindi quei rami con le foglie venivano dati per alimentarsi, agli animali che tenevano, in particolare alle capre.
Poi quella quercia ebbe la sventura di essere colpita da un fulmine che quasi la incendiò. Capita, non spesso, ma capita. E quella quercia perse gran parte dei rami e i proprietari, nostri parenti antichi, ma non solo loro, cominciarono a cercare di tagliare i rami, tagliare il tronco, per poterne fare legna per il fuoco. E quando poi anche questa usanza è finita, non c’era più interesse perché avere le capre non è più una necessità, anche i maiali si allevavano raramente, quella quercia era rimasta lì, un moncone.
Siccome fu data ai parenti di nonna Nicoletta e quelli, dietro a lei, la segnarono proprio a lei, io ho fatto in modo che quella quercia venisse qui. L’abbiamo ripiantata qua fuori. Quella quercia che vedi là fuori, sta lì. Se ci hai fatto sembra di avere la proboscide di un elefante. Non lo era, naturalmente. Perché quella pianta, che pure era stata bruciata, aveva avuto la forza di crescere dalla base di nuovo e cacciare dei rami. Ma la cosa più spettacolare di quella quercia, che tu avrai visto più volte, è i buchi di picchio. Capaci di bucare un legno fra i più duri che esistono. Ma a guardare, tu osservi che con l’accetta, cioè con la roncola – la roncola era troppo piccola – hanno tentato decine di volte di tagliare. Ci sono riusciti fino a quando hanno tagliato i rami, ma sul tronco sono rimasti ancora adesso i segni dei colpi di accetta nel tentativo di ricavarne delle schegge, delle parti di legno da usare per l’inverno.
Quindi è stata una pianta che ha una storia lunghissima ma che serviva a chi la possedeva, a chi l’ha curata, e a chi l’ha utilizzata e sfruttata, per indicare che quello era un bene importante per la famiglia. E adesso tuo fratello ha cominciato a fare l’arrampicatore, riesce a salire in maniera acrobatica sulla quercia. Arrampica talmente tanto da arrivare al primo ramo tagliato e da lì riesce a starci sopra. Questo è il significato di quella quercia che io ho voluto riportare qui d’accordo con lei (tua madre) e che abbiamo riportato in maniera seria, perché su quella quercia ho piantato almeno cinque ferri lunghi oltre un metro, in parte piantati nel legno, avendo fatto un foro con il trapano, e in parte l’abbiamo immersi nel cemento in maniera che abbia una base solida, resistente, nel tempo, che impedisca di farla cadere. Ma quando lui ci gioca è un motivo effettivo per farti valorizzare quella che può sembrare una stranezza che un giardino, in una casa che ha tanti alberi, tanta cose, viene ad avere un altro bello albero che è un albero speciale per noi.
E questa è la storia. Spero che ti piaccia.

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