Dopo tanti anni (l’estate prossima dovrebbero essere cinquanta), il Teatro Povero di Monticchiello mantiene una invidiabile freschezza, che è insieme un caso raro di profondità e rigore. Qualcuno sbrigativamente accusa il teatro di Monticchiello di essere «sempre uguale» a se stesso. Ma proprio lì sta la sua forza, in quella coerenza che non smette di denunciare il presente e nello stesso tempo di scandagliare la propria memoria collettiva e farne tesoro. È impressionante anche questa volta che, seduti nella bella piazzetta entro le mura medievali, si venga subito immersi in uno dei problemi nodali della nostra società, il calo drastico delle nascite. Che unito al prolungamento della vita media, produce una società di «anziani», su cui per altro continua a stagnare la crisi economica generale.

Il paese che manca, come suona il titolo dello spettacolo di quest’anno (tutte le sere fino a sabato 15, info 0578 755118, oppure www.teatropovero.it), è proprio quello della gioventù, e quindi della speranza. Che sulla scena prende corpo con la festa al centro del racconto: si festeggia infatti il compleanno dell’ultimo ventenne in paese. Che non è un paradosso filosofico, ma un fenomeno vicino alla realtà anagrafica. E mentre nonna, madre e le donne del vicinato preparano quella festa con vassoi, panieri, bicchieri e bottiglie, ma anche farina da impastare in diretta davanti al pubblico, è inevitabile il confronto con altri compleanni. Festeggiati con meno risorse e apparecchiature, ma certo con maggiori speranze e programmi per il futuro, del festeggiato e della sua generazione. La nonna (che poi si rivelerà la più pronta e positiva nei confronti del ragazzo) dà un tocco poetico ai suoi ricordi, con la descrizione lirica ma ben concreta dei «suoi tempi», tale da suscitare subito commozione e coivolgimento in chi l’ascolta. I genitori del ragazzo invece sono già disillusi, stanchi di doversi sbattere tanto per ottenere una vita invariabilmente grama, che si fa rabbia ogni volta che scatta magari il riferimento a una giovinezza libertaria, contestativa, e piena di positive speranze.

I ventenni a loro volta non si fanno illusioni soverchie neanche loro, ma sanno che potendo sviluppare e applicare la propria creatività, otterrebbero risultati inaspettati e magari anche redditizi. E contemporaneamente alla vicenda al centro di quella tavolata che è rimasta contadina senza farsi piccoloborghese, scorrono altri due percorsi narrativi paralleli. Uno è quello dell’ufficio postale in paese, destinato alla chiusura da parte di PT, perché sempre meno redditizio; l’altro è una figura che sta tra la follia e la creatività: è il giocattolaio, che senza farsi troppo vedere, crea pupazzi e giocattoli mirabili con oggetti magari di riciclo, ma conservando gelosamente la propria estraneità alle leggi del mercato.

Tutte queste storie, ipotesi e analisi (che certo risulterebbero esecrabili per ministre e sottosegretari del governo Monti,e forse perfino incomprensibili a quelli dell’attuale Renzi), convivono e si rafforzano nello spazio di poco più di un’ora, in una lingua che ha il privilegio di molti accenti e di parecchio lessico della val di Chiana, costituendo un racconto unitario e anche avvincente, per la quantità di bisogni che gli attori condividono col pubblico.

Del resto è una tradizione consolidata che siano gli stessi abitanti a fornire spunti ed esigenze per lo spettacolo, fin dall’inverno precedente, anche se poi è l’occhio teatrale di Andrea Cresti a dar loro veste, ritmo e drammaturgia sul palcoscenico. Per il pubblico è una salutare dose di riflessioni (scherzose e insieme serissime) mentre digerisce o pregusta la fantastica cucina che gli stessi attori della compagnia curano ogni anno.