Lo scrittore georgiano Aka Morchiladze descrive Tbilisi come un luogo ricco di meraviglie e puzzles. La stratificazione di architetture e delle orme che hanno lasciato persiani, mongoli, bizantini, ottomani, sovietici lascia perplesso il viaggiatore che fermo in un crocicchio di vecchie case si chiede: siamo in Asia o in Europa? Il ginepraio delle tormentate vicende storiche sembra apparentemente accantonato già da qualche anno e nuovi invasori si sono impossessati delle strade della capitale e dei suoi esterni incantevoli paesaggi: i turisti. Russi e russofoni per la maggior parte, gli altri al seguito, occupano le strade strette che si inerpicano verso la fortezza di Narikala o il modernissimo Ponte della Pace progettato da Michele de Lucchi dove è possibile farsi fotografare con scimmie, pappagalli e pitoni per pochi lari. Le storie che si possono raccontare non si limitano ai vicoli che sanno di umidità, ai cafè brulicanti , alla frutta secca appesa come dolcissime salsicce, all’alfabeto in eterna fioritura o ai cani randagi spalmati sui marciapiedi in un sonno mistico.

Al di là del “risveglio del cinema georgiano”, che pure ha le sue ragioni pensando alle perle più recenti come “My Happy Family” (2016) di Nana Ekvtimishvili e Simon Groß, all’ ombra del CinéDoc, un piccolo festival internazionale di documentari, la città diventa casa, per scelta o per destino, mai immune dai cambiamenti, sempre sensibile ai sentimenti. “On the Garages” di Giorgi Parkosadze e Mariam Kobaladze cattura episodi di vita quotidiana di diverse generazioni. Un ragazzo di nome Data, vecchi e innocui attaccabrighe da bar, Indira e Manana, due donne che lavorano in un atelier di cucito e alcuni adolescenti praticanti di parkour. Ambientato in una strana costruzione a due piani sopra alcuni garages, al centro di un cortile e circondata da palazzoni, il documentario mostra la metamorfosi dello spazio urbano e delle vite ad esso legate. Altrettanto asciutto nello stile ma più onirico è “My Piece Of The Earth” di Maka Gogaladze in cui la regista fonde la propria memoria domestica anche dolorosa (il suo appartamento andato in fiamme) con quella del suo vicinato soggetto ad altrettante radicali trasformazioni. Un viaggio delicato in una città che mostra/va angoli ancora fermi nel tempo: i bagni pubblici, gli esercizi commerciali dove non entra più nessuno, i nostalgici del comunismo.

A tal riguardo uno spettatore tra il pubblico chiede alla regista informazioni sul suo prossimo progetto: “Un lavoro sull’educazione scolastica informale di stampo sovietico”, allora è un vizio, dice malizioso lo spettatore, è il mondo in cui sono cresciuta, la mia infanzia, risponde la regista. Il meraviglioso mondo dei matrimoni combinati, dove altri scelgono per te, in costante attrito con il proprio posto nel mondo. Su quest’ultima scia si agganciano due interessanti lavori sul tema della disabilità. “Fear of the past” di Mariam Nikolaishvili e “A Life Of Her Own” di Tamara Mshvenieradze, vincitore di una menzione speciale della giuria nella sezione “Focus Caucasus”. Nel primo la venticinquenne Gvantsa, disabile a causa di un incidente in cui ha perso sua zia, si appassiona alla scherma e sogna di partecipare alle Paraolimpiadi di Tokyo. Tuttavia, i dottori le parlano della possibilità di un intervento alle gambe e Gvantsa dovrà scegliere tra il suo sogno e la salute.

Il documentario si interrompe qui, forse per le tempistiche del filmabile, e nonostante l’insolito dilemma affrontato è solo nel post proiezione che apprendiamo la scelta della ragazza, ovvero la salute. “A Life Of Her Own” è la definitiva nota a margine sulle nostre inutile lagne da “normali”: dopo trentanove anni di dipendenza e isolamento Nunu decide di lasciare la famiglia a Svaneti e di trasferirsi da sola nella capitale. Un carattere fortissimo e solare che non permette alla limitata mobilità di avere la meglio sulla affermazione come individuo nella ricerca di un appartamento o nelle ambizioni professionali e private.

Non sempre la casa è un nido, molte volte è una gabbia. Shota Adamashvili è l’unico cantante country in Georgia anche nell’abbigliamento, ma Nashville è irraggiungibile e non resta altro, per il momento, che trovare ispirazione a casa. “Tbilisi to Tennessee” di Daniel Washington segue le serate del protagonista nei locali semivuoti, la composizione dei testi, la partecipazione a un famoso festival country in Lituania, ma perde l’occasione di uno slancio poetico più deciso nel definire la sommessa frustrazione di uno straniero in patria. Se Shota vuole partire per il Tennessee, cinque musicisti dagli Stati Uniti, Iran, Israele e Germania vogliono fermarsi in Georgia e perfezionare il loro talento. Tra questioni relative ai visti e macerie alle spalle “Transfer to Georgia” di Natia Arabuli-Weger è uno sguardo su un gruppo di espatriati in viaggio per le diverse regioni del paese con le loro differenze etniche, religiose e culturali.

Un omaggio alla tradizione musicale georgiana, un’identità tenace che erutta come un’emozione per le strade di Tbilisi con giovani musicisti e ballerini improvvisati e scatenati. Fuori dalla trafficata capitale, nelle cosiddette “zone rurali” la vita del villaggio ha poco dell’Eden perduto, anche se non lo dice. “In The Land Of Wolves” dell’australiana Grace McKenzie immerge lo spettatore in una parte di mondo remota eppure tangibile; nel divenire delle stagioni alcuni pittoreschi personaggi vivono a contatto con la natura le paturnie della vita. Jimmy è un contadino sordo che affronta un divorzio e la battaglia per la custodia della figlia, Emzari è un ragazzo che sogna di diventare meccanico di trattori, Jean-Jacques è un francese che si è trasferito in Georgia dopo essersi innamorato della sua musica e ora si occupa di agricoltura biodinamica.

Dai toni agrodolci al sapore più amaro:“Before Father Gets Back” di Mari Gulbiani, uno dei migliori documentari del festival e vincitore del Georgian Public Broadcaster Award, racconta l’iniziazione al cinema di due ragazze musulmane nelle aule desolate della regione di Pankisi, a Nord-est. I residenti dentro e fuori il documentario combattono lo stereotipo mediatico che dipinge la zona unicamente come covo di terroristi. All’inizio degli anni Duemila la zona fu la base dei separatisti ceceni e negli ultimi anni estremisti locali sono partiti per la Siria al fianco dell’Isis; con molti sforzi e senza troppi aiuti dalle istituzioni gli abitanti cercano di far conoscere la bellezza del luogo ai turisti. Nel lavoro della Gulbiani il terrore è un sottofondo molesto di una radio o di una trasmissione televisiva in un racconto di formazione e di costanti domande sulla religione e il senso della fede.