È tornato dopo undici anni di assenza Opera Prima, il festival che alla sua nascita, nel 1994, si era subito distinto come luogo di accoglienza delle sperimentazioni meno visibili della scena italiana. Organizzato da un nuovo omonimo organismo associativo, Opera Prima riprende le fila di quel discorso interrotto nel 2007, ma andando ad articolarsi su un dialogo tra «Generazioni» (è il titolo di questa XIV edizione), sollecitato dal coordinatore artistico, Massimo Munaro, regista del Teatro del Lemming, attraverso l’invito a proporre un giovane gruppo, rivolto ad artisti già noti. Ne è uscita una sorta di direzione collegiale, il cui sguardo prismatico ha focalizzato realtà variegate, anche extraitaliane, senza tralasciare i giovanissimi rodigiani. Così in quattro giorni Rovigo si è riempita di teatranti, con allestimenti anche en plein air, seguiti da uno zoccolo duro di spettatori, disposti a compiere lunghe camminate a piedi per sostarsi da una location all’altra e raggiungere i ragazzi di Nexus, con il loro Amleto in 15minuti, o Roberto Latini che dal giardino delle Due Torri ha lanciato i versi di Mariangela Gualtieri.

Mentre nei Sotterranei, il compositore Dodicianni, al cospetto di un solo spettatore alla volta improvvisava la partitura guardandolo negli occhi. Cuore del festival è rimasto però il Teatro Studio, lo spazio del Lemming, da trent’anni alla ricerca di nuovi compromissioni con lo spettatore, lavorando anche sulla formazione. E Chiara Rossini con il suo Angst vor der Angst dell’ensemble berlinese Welcome Project ne è un esempio. Ma un affondo sulla paura e sulla sua strumentalizzazione per conservare lo status quo è firmato Alessandro Berti, uno scavo straordinario nelle nefandezze colonialiste che smaschera le Bugie bianche e gioca col tabù dell’uomo nero. La prima parte si intitolerà Black dick.