È successo a Franco Scaldati quel che, in altra misura, è stato per Eduardo. La morte del teatrante palermitano ha liberato un corpo di scritture teatrali che possono ora andare in scena in assenza del suo corpo di attore, da cui sembravano così imprescindibili. Affidarsi ad altri interpreti capaci anche di tradirle, che poi è la forma più alta di fedeltà all’autore. È il caso di Enzo Vetrano e Stefano Randisi che già qualche tempo fa si erano calati nei panni di Totò e Vicè, ultima incarnazione della coppia assunta a misura del teatrino quotidiano delle strade palermitane, e ora affrontano con Assassina uno dei testi più misteriosi e belli di Scaldati, di cui entrambi sono registi e interpreti (all’Arena del sole fino a domani poi in tournée, saranno a Palermo a fine marzo).

Sono la vecchina e l’omino, i protagonisti senza nome del testo. Senza nome non perché esemplificativi di una condizione umana generale ma al contrario perché creature tanto ai margini della vita da aver perso anche quello, la necessità di un nome. L’hanno scordato, chi mai li chiama per nome. Un nome l’hanno dato alla fauna che popola la casa, la gallina chiusa in una gabbietta e il topo che si nasconde nella propria tana e la mosca fastidiosa. Si dice casa ma è un luogo incerto quello disegnato da Mela Dell’Erba, un riquadro contornato da una bassa cornice di piastrelle d’un azzurro acqua che sembra emergere da un ammasso di rovine. Forse quel che resta di un bagno pubblico dove hanno trovato rifugio, con le poche cose accattate chissà dove. Una radio che emette solo vocalizzi, una piccola lampada da notte, la statuina della madonna, i minimi attrezzi della cucina che però devono fare i conti con la dispensa vuota.

Vestito grigio informe e scopa in mano, lei dialoga con la propria ombra o inveisce contro il pescecane che vede apparire nell’acqua del secchio in cui si lava i piedi, vagheggiando magari l’arrivo di un fidanzato. Lui appare quando lei si è già coricata in quella che sembra essere stata una vasca. Ripete i gesti che probabilmente sono di ogni sera, anche lui perduto nel proprio soliloquio che ha per soli interlocutori il topo e la gallina, prima di andare a distendersi accanto a lei. Nel buio passano veloci le immagini della città che si muove fuori da lì. Ma ecco che svegliandosi non si riconoscono. Lei lo prende per un ladro e vorrebbe cacciarlo; lui la schernisce ma è anche più dubbioso della propria identità, se sia realtà o sogno quel che sta vivendo.

Lo scontro fra l’assurdo e la quotidianità onirica della trama innesca la comicità un po’ agra che circola in tutti i testi di Scaldati. E Vetrano e Randisi cercano di addomesticare la lingua di Scaldati, di renderla più comprensibile – all’inizio c’è anche un divertente glossario di lingua siciliana per rendere più trasparenti quei tràsiri e nèsciri. Ciò che risalta è sempre il fatto che quei personaggi irreali e concreti allo stesso tempo sono calati in una scrittura che attraversa con violenza e dolcezza un mondo magico, da cui emergono per una sorta di evocazione medianica.

La luce del giorno è piena di ombre invisibili, dice a un certo punto l’Omino. Dare corpo e voce a queste ombre invisibili mi sembra sia stato il compito che si era assunto Scaldati, o quello che gli era venuto spontaneo. Così non stupisce neppure l’illuminarsi a tratti di una grande cornice che, sopra due lumini cimiteriali, inquadra i numi tutelari della casa. Sono i Fratelli Mancuso ritratti a figura piena, per così dire, nella posa di un dipinto secentesco di Jusepe de Ribera, una donna barbuta col marito un po’ in ombra alle sue spalle. Cantano e i loro canti altrettanto misteriosi, accompagnati da una serie di strumenti di varie epoche e geografie, sembrano regalare una sorta di epicità alla resistenza di quelle vite nascoste.

Naturalmente non c’è scioglimento possibile dell’enigma che è già nel titolo del lavoro. Assassina è forse la vita. O la città di fuori, che è quasi la stessa cosa. Da ultimo li troviamo sdraiati l’uno a fianco dell’altra a bere un fatale bicchierino di rosolio. E quando sembrano infine riconoscersi con una sorta di sgomento stupore – Genovè! Cocò! – crollano a terra.