Quando Rainbow Stories esce per la prima volta nelle librerie inglesi e poi in quelle statunitensi, il muro di Berlino è in procinto di crollare e le truppe sovietiche hanno avviato il ritiro dall’Afghanistan: è il 1989 e la Guerra fredda volge al termine, trascinando con sé l’età postmoderna. William T. Vollmann non ha ancora trent’anni, ma ha già alle spalle il periodo trascorso tra le montagne afgane in supporto dei ribelli mujaheddin, che avrebbe raccontato in Afghanistan Picture Show, oltre a diversi viaggi in Groenlandia, Canada e Alaska alla ricerca di materiale per una «storia simbolica» del continente nordamericano che sarebbe confluita nel ciclo dei Sette sogni, tuttora in corso di pubblicazione.
Aveva esordito nel 1987 con un romanzo enciclopedico di stampo postmoderno su una guerra combattuta da insetti rivoluzionari contro un nemico fatto di pura elettricità – un’opera visionaria di ben 650 pagine che lui stesso definì «una monografia su certi esperimenti condotti nel mio laboratorio etico – esperimenti che riguardano il reagente più forte, la crudeltà».

Tuttavia, il mix di fantascienza, sperimentalismo e satira politica di You Bright and Risen Angels (inedito in Italia) aveva lasciato perplessi i pochi recensori abbastanza coraggiosi da avvicinarvisi, e nonostante gli elogi all’originalità dell’opera e all’indubbio talento dell’autore – paragonato a un mostro sacro come Thomas Pynchon – il romanzo era passato quasi inosservato.

L’epigrafe da Poe
Il libro successivo sancisce un decisivo cambio di rotta: lo scrittore californiano si affida alla short story, genere americano per eccellenza e l’unico che, secondo Edgar Allan Poe, offre allo storyteller «la possibilità di realizzare la pienezza del suo talento, qualunque esso sia».
Forse non è un caso che il volume si apra con un’epigrafe tratta proprio da «Berenice», uno dei più famosi racconti di Poe. Abituato a lavorare sul campo, Vollmann sceglie di «tornare a casa» per documentare le storie invisibili di chi vive in equilibrio precario ai margini della società americana, «prima che scoppino come bolle di sapone dai colori arcobaleno». Trascorre quindi un periodo con un gruppo di skinhead ed esplora a fondo il famigerato Tenderloin district di San Francisco, intervistando prostitute, senzatetto, spacciatori, tossicodipendenti e alcolizzati. Nei suoi racconti, i narratori evitano per quanto possibile ogni facile giudizio morale, preferendo dar voce ai personaggi senza interferire con le loro idee o abitudini: «Siccome finora i miei tentativi di fare del bene sono stati disastrosi – scrive nella prefazione – sono diventato un semplice angelo che prende nota anziché un Michele o un Gabriele».

Pubblicato da minimum fax nell’ottima traduzione, completamente rivista, di Cristiana Mennella e con un titolo leggermente diverso rispetto all’introvabile edizione Fanucci del 2001, Storie dell’arcobaleno (pp. 714, € 20,00) raccoglie tredici racconti scritti tra il 1985 e il 1988 e segna il punto d’ingresso ideale per avventurarsi nella sterminata produzione letteraria di un autore tra i più prolifici d’America. Come un prisma che rifrange in prospettiva tutti i colori della sua scrittura, il volume funziona da pantone per classificare le innumerevoli tonalità della prosa di Vollmann.

I colori contano
Insieme ai pazienti che nel testo d’apertura – «Lo spettro visibile» – seguono i percorsi colorati per arrivare ai vari reparti di un ospedale, il lettore associa ogni racconto a una tinta specifica che prefigura uno dei filoni narrativi poi esplorati da Vollmann nella sua più che trentennale carriera: dall’ossessione per il suprematismo bianco degli skinhead in «Cavalieri bianchi» al vestito verde da donna di cui si innamora perdutamente il narratore del racconto che ne prende il nome, anticipando gli esperimenti di cross-dressing narrati in The Book of Dolores.

«Signore e luci rosse» avvia la trentennale indagine nel mondo delle prostitute, che Vollmann continuerà in Puttane per gloria e Storie della farfalla, fino al più recente The Lucky Star, mentre l’«Arancione scintillante» della fornace in cui il re babilonese Nabucodonosor intende ardere gli ebrei – come anche lo «Zucchero giallo» consumato dai Thug nell’omonimo racconto – vengono utilizzati per decostruire le dinamiche del romanzo storico tradizionale, evidenziando le complesse relazioni che corrono tra personaggi storici, mitologici e autobiografici, poi riprese nei Sette sogni. La mescolanza di ricostruzione documentaria e narrazione finzionale, gli incroci originali tra autofiction e romanzo storico, le contaminazioni del reportage con il racconto fantastico, l’indagine scientifica costruita come memoir – tutti gli elementi che rendono unica la narrativa di Vollmann convergono nel racconto più avvincente della raccolta, «Nel blu profondo», storia di un serial killer in lotta contro se stesso, ispirata a un fatto di cronaca ma narrata in toni che vanno dall’epico al tragico al comico fino a un impersonale stile giornalistico.

Nel mondo di Vollmann il passato si confonde col presente e la confessione autobiografica assume i contorni del mito: l’Eden verso cui fuggono gli ebrei di Babilonia – si legge – «era protetto dal filo spinato e circondato da postazioni per mitragliatrici presidiate (ammesso che sia il termine giusto) da torvi angeli dagli occhi fiammeggianti, disseminato di cartelli che dicevano ALT! e PROPRIETÀ PRIVATA e SPARARE A VISTA»; e il narratore di «Mani Rosse» mette a confronto l’uccisione di un topo durante un esperimento in laboratorio con un attentato ai grandi magazzini, affermando che in entrambi i casi «non uccidiamo per sadismo ma per motivi incidentali, per ottenere un risultato in qualche altro campo, e questo vale per lo scienziato come per il terrorista».

Radiografie di miserie
Interrogarsi sulla veridicità delle singole narrazioni ha poco senso – «Quando uno mi racconta una storia, probabilmente sarà vera per lui» – scrive Vollmann nella nota finale. Per lui lo scrittore è un apparecchio radiologico in grado di estrarre «le miserie che rodono l’anima a beneficio della nostra conoscenza»; ed è anche, come ha dichiarato in un’intervista, una sorta di scultore alle prese con quel blocco di oscurità che è il racconto, finché al suo interno non comincio a scorgere minuscole stelle; cerco di svelarne quante più possibili, lasciando la giusta quantità di oscurità tra l’una e l’altra affinché brillino di più per contrasto, proteggendole dalla luce del giorno».