«Mi chiamo Dionigi. Fra poco più di un’ora una commissione degustatrice mi assegnerà il premio come miglior azienda dell’anno. Un risultato importante, che non cambia di molto la mia vita, a parte qualche bottiglia in più che venderò. Quello che facevo ieri continuerò a farlo domani. Se avessi fatto questo per soldi o per premi sarei impazzito, è un mestiere che fai solo perché lo ami o perché, nel mio caso, la prima cosa che hai visto nascendo è stato un grappolo d’uva». È con questa testimonianza che inizia il monologo di Pino Petruzzelli Io sono il mio lavoro che ha debuttato venerdì scorso al Teatro Duse di Genova e resterà in scena fino a domenica 15. Un inno al lavoro in una terra scoscesa, contesa dal mare. Lo spettacolo di 70 minuti è animato da più voci, raccolte in due anni con i vignaioli della Liguria e trascritte nel volume Io sono il lavoro. Storie di uomini e di vini (pentàgora). Protagonisti sono il lavoro dell’uomo e la natura che talvolta lo asseconda, dandogli la forza di continuare: pulisci l’ulivo soffocato dai rovi, tagli via tutto intorno e dopo un po’ tornano le olive.

IL DIFFICILE è proteggere i muretti a secco dall’usura e dalle intemperie, trovare la forza per continuare: «Il lavoro da quelle parti è tutto, me l’ha insegnato mio papà. Era severo lui, alle cinque del mattino bisognava già essere in piedi per andare in vigna. La notte potevi aver fatto l’ora che volevi, ma alle cinque dovevi essere in piedi. Non c’erano ragioni. Partivamo col carro. Si facevano due ore di strada portandoci dietro dodici bigonce: si tagliava l’uva, se ne caricavano due quintali sulle bigonce e si ritornava. Di nuovo due ore di strada. I terreni erano tutti spezzettati, i muretti a secco fatti da me, quelle pietre me le sento ancora tra le mani».