Il sogno è una delle dimensioni più misteriose della storia dell’umanità, scrive il direttore Ruggero Cappuccio a introduzione del Napoli teatro festival. E sembra rispondergli Declan Donnellan, giacché il rinomato regista inglese (qui però con una compagnia di lingua francese) fa rivivere in una asettica sala ospedaliera la vicenda dello scespiriano Pericle principe di Tiro come il delirio di una mente febbricitante. La prima settimana del festival schiera già le sue stelle internazionali (c’è anche Isabelle Huppert con una lettura di tono sentimentale de L’amant di Marguerite Duras) ma con risultati meno memorabili delle produzioni nazionali.

Il seme della tempesta è il titolo sotto cui il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri ha raccolto una «trilogia dei giuramenti» che inquadra in una diversa prospettiva il bellissimo Giuramenti della scorsa stagione. Si inizia in forma di concerto, con le sonorità a tratti stridenti ideate da Enrico Malatesta per creare insieme ad Attila Faravelli l’ambiente sonoro in cui emergono, su due schermi laterali, le immagini ombrose di volti femminili ripresi dal vivo.

È il prologo a un Discorso ai vivi e ai morti di un’Antenata che si erge sul palco di fronte a un angelo dalle ali scure che l’ascolta dal centro della platea che le poltrone coperte da teli bianchi trasformano in una distesa di dune desertiche. I versi di Mariangela Gualtieri si proiettano da lì verso il numeroso coro che dilaga dalla sala alla scena e si sfrangia nelle singole voci di un dolore gioioso, di una vitalità capace di aprirsi al mondo nuovo che bussa alle nostre porte.

Fra il sogno e l’incubo è sospeso anche Regina madre che Manlio Santanelli scrisse nei primi anni 80 e dunque incrocia anche temporalmente i lavori di Enzo Moscato che il regista Carlo Cerciello ha affrontato magistralmente nelle ultime stagioni. O meglio, è questa la chiave di lettura imposta visivamente dalla scena di Roberto Crea. Ecco infatti un grande letto che occupa quasi per intero il palcoscenico del teatro Nuovo, fra due burattini disarticolati, due giganteschi pinocchietti che concretizzano il blow-up di una dimensione infantile. Lì sopra sembrano naturalmente piccini i due protagonisti, impegnati all’apparenza in una battaglia per la propria sopravvivenza.

La madre del titolo, regina di nome e di fatto del mondo fittizio costruito intorno al ricordo del marito morto. E il figlio che nel fallimento personale ha costruito la propria forse inconsapevole ribellione. E sono bravissimi Fausto Russo Alesi e Imma Villa in quel loro giocare di velocità fra la tenerezza repressa e una comicità atroce, mentre vanno piantando le sponde fragorose che li imprigionano. Ma poi qualcosa si rompe in quel meccanismo di recriminazioni in fondo prevedibile. Sarà che la malattia è chiaroveggente. La trama si sfalda. Tutto diventa più incerto, nella visione di Cerciello. L’apparire di un largo cappello piumato richiama in scena il fantasma di una sorella dal destino altrettanto fallimentare. Le parti si invertono e si incrociano per confluire infine in un’unica voce. La sola che forse ci ha parlato fin dall’inizio.