La dismissione delle statue degli schiavisti in sovrimpressione con la lotta infinita per i diritti degli afro-americani. La durissima repressione della polizia francese non solo contro i gilet jaunes, ma qualsiasi forma pubblica di dissenso. Il tempo sospeso vissuto da donne e uomini in transito nel deserto del Sahara. L’informazione scritta e trasmessa da un giornale indiano la cui redazione è costituita di sole donne. L’attivismo femminile per denunciare e combattere i femminicidi in Turchia. La resistenza dei giornalisti brasiliani, di carta stampata e televisioni, alle falsità diffuse da Bolsonaro e dal suo governo.

Sono gli argomenti trattati dai sei film proposti da Mondovisioni, la rassegna di documentari organizzata da CineAgenzia con il settimanale «Internazionale» che torna sugli schermi dopo due edizioni limitate dalla chiusura delle sale cinematografiche. Fino a domani a Ferrara, poi in viaggio per l’Italia fino all’estate del prossimo anno (su www.cineagenzia.it il calendario e le informazioni per organizzare le proiezioni). Un giro del mondo in sei film molti in anteprima italiana, per esplorare nella loro complessità temi di bruciante attualità descritti da occhi sensibili, da cineasti che, con il piglio del reportage incalzante, di un cinema dell’ascolto e della condivisione, tras-portano lo spettatore in ambienti a volte noti, a volte meno conosciuti, sempre con uno sguardo partecipe, in alcuni casi teorico, in altri in prima persona.

SI PONE IN CAMPO, in mezzo alle persone che filma, e con la sua voce narrante, per meglio comprendere il presente indissolubilmente connesso alla Storia, CJ Hunt, regista ma soprattutto comico in show televisivi. In The Neutral Ground (in anteprima europea), l’attore americano di origine filippina va in giro per New Orleans, così come in altre città che mantengono i simboli dello schiavismo, a porre domande, indagare, riflettere, dialogare, «ripensare le storie che abbiamo letto crescendo». CJ Hunt lo fa ricorrendo all’umorismo, a gesti situazionisti, integrando parole e immagini, frasi e materiali d’archivio, in una fusione di voci, dati e date, scritte che appaiono sullo schermo amalgamandosi con le fonti visive, testimonianze plurali e contrastanti. Ci fa scoprire un’ex piantagione trasformata in museo a Edgard, in Louisiana, in memoria delle persone schiavizzate, con statue di teste di africani conficcate in pali, estremamente realiste, per ricordare una rivolta del 1811. E a quei fatti l’artista Dread Scott si è ispirato per una performance di reenactment, filmata da CJ Hunt. Ieri è oggi. Ecco così la cronaca: Charlottesville, l’omicidio di George Floyd, le dichiarazioni di Trump… Le statue vengono gettate nell’acqua, ma la lotta deve continuare.

E DI LOTTA, impegno, contro-narrazione, parlano anche le storie narrate dagli altri film. In The Monopoly of Violence di David Dufresne il punto di partenza è quello delle manifestazioni dei gilet jaunes in tante città francesi, accuratamente documentate dal regista, molto spesso usando immagini tratte dai telefonini dei manifestanti che archiviarono in diretta i soprusi della polizia. Dufresne ricorre a un preciso dispositivo: raduna persone di varie professioni e identità sociali e politiche in una stanza e fa vedere loro, su uno schermo, scene e scontri di piazza che videro molti di loro coinvolti. Si tratta di ri-guardarsi o di guardare, e di reagire, rielaborare quel vissuto privato e collettivo. In strada non c’erano solo gilet jaunes, c’era un popolo stratificato colpito da una violenza, come viene più volte ripetuto, di Stato, istituzionale, vera questione sulla quale dibattere, inammissibile in una democrazia. Non sembra affatto di essere in uno dei paesi cardine dell’Europa.

BISOGNA testimoniare, continuare a farlo. Non ci credevano neppure loro, all’inizio. Ma quel gruppo di donne indiane è diventato un punto di riferimento per una libera informazione. Siamo nella regione dell’Uttar Pradesh e Writing With Fire, dei cineasti indiani Rintu Thomas e Sushmit Ghosh, ci fa fare la conoscenza di donne dalit (una comunità che l’antico e vigente sistema delle caste esclude, marginalizza, considerandola impura) che nel 2002 fondarono il giornale «Khabar Lahariya» (che significa «Onde di notizie»), prima cartaceo e dal 2016 raddoppiato in versione digitale con un canale You Tube dagli accessi sempre più numerosi. E che ora, grazie alla loro professionalità e passione di scoprire e portare alla luce storie di piccola gente, corruzione, miniere illegali, stanno aprendo uffici fuori dalla regione. Dal 2014 in India sono stati uccisi oltre quaranta giornalisti, è uno dei paesi più pericolosi al mondo in cui fare questo lavoro. Quelle donne rappresentano un’alternativa e non spengono i loro cellulari-videocamere neppure davanti ai politici legati al premier Narendra Modi.

 

SONO CORAGGIOSE e le ultime inquadrature assumono valenza teorica: la caporedattrice si incammina in un campo con cellulare e cavalletto. Come già altrove nel film, le videocamere delle giornaliste e quelle dei registi condividono una stessa inquadratura. Gli intervistati si trovano accerchiati da due diversi mezzi in un testo che invita a riflessioni sul senso del filmare e dell’essere filmati.
In un territorio formale differente si colloca il notevole The Last Shelter del maliano Ousmane Zoromé Samassékou, che ha come unità di luogo la Casa dei migranti di Gao, in Mali, in pieno deserto, gestita per accogliere persone partite dai loro paesi con l’intenzione di raggiungere il Nord Africa e l’Europa oppure decise a rientrare nelle terre d’origine. Tutti, in attesa. Che un mezzo li porti da qualche parte. E possono passare anni. Samassékou osserva, con sguardo delicato, la quotidianità sospesa di adolescenti e adulti, i loro rapporti con chi si prende cura del centro, la difficoltà di comunicare i propri sentimenti, le piccole attività per riempire le giornate. Mentre nei dintorni, come si vede nell’intenso incipit, ci sono cimiteri improvvisati, croci spesso senza un nome, la terra del deserto che copre la presenza di cadaveri.

DA SEGNALARE, infine, Dying To Divorce che la gallese Chloe Fairweather ha girato dal 2015 al 2019 in Turchia per documentare, seguendo il lavoro dell’avvocata Ipek Bozkurt, fondatrice dell’associazione We Will Stop Femicide, la tragedia delle violenze subite dalle donne, uccise o, se sopravvissute, rimaste sfigurate nel corpo e nella psiche. In un paese che ha il numero più alto di violenze domestiche tra quelli sviluppati. E Sieged: The Press vs. Denialism del giornalista e regista brasiliano Caio Cavechini. Il suo lavoro di reporter affiora evidente in questo documentario che, con lo stile del reportage, si addentra nel Brasile del 2020 dilaniato dalla pandemia e nel ruolo dei media di fronte alle menzogne governative. Perché, come dice una giornalista, «puoi scegliere di non vedere, ma è tutto vero».