Nel suo ultimo lavoro, Sorry, boys. Dialoghi su un patto segreto per 12 teste mozze, le si intravedono appena le gambe. Ha un gran bel da fare Marta Cuscunà lì dietro, con tutti quei freni e i pedali da manovrare per mettere in movimento bocche e palpebre delle teste in lattice appese come trofei. Ma chi ha visto il suo primo spettacolo, È bello vivere liberi! Un progetto di teatro civile per un’attrice,5 burattini e un pupazzo, ricorderà certamente il suo volto da ragazza, voce narrante insieme agli attori di cartapesta. Con questo spettacolo ha vinto il primo Scenario per Ustica nel 2009 e da quando ha debuttato continua a portarlo in giro per l’Italia. Di recente è stata ospite del festival romagnolo «Arrivano dal mare», il più antico festival italiano di teatro di figura. E la prossima tappa la porterà a Cantù (3 novembre). È bello vivere liberi! racconta la storia di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana e deportata ad Auschwitz.
Marta, le storie che racconti sono soprattutto storie di «resistenza». Quanto ha influito sulle tue scelte il fatto di essere nata a Monfalcone, città famosa per i cantieri navali e per il triste primato di morti per malattie causate dall’amianto?
Sicuramente ha influito molto. Il primo spettacolo che ho scritto, È bello vivere liberi!, è strettamente legato a Monfalcone. Leggendo la storia di Ondina Peteani scritta da Anna Di Giannantonio, ho riconosciuto i luoghi, i racconti di cui ho sentito parlare. Ondina era un’operaia dei cantieri navali. Un giorno 1500 operai uscirono dalla fabbrica ancora in tuta da lavoro e salirono sulla montagna per unirsi alle formazioni partigiane. Le staffette partigiane hanno avuto un ruolo fondamentale nel nostro Paese. Mi ha colpito molto il gesto di quelle donne. Oggi sembra che tutto passi sopra le nostre teste, per questo la storia di Ondina contiene un messaggio positivo: ragazze così giovani sono l’esempio di come ogni singolo individuo può diventare indispensabile per la vita di un intero popolo. Quello, per Ondina, come dice lei stessa, è stato il periodo più felice della sua vita. Per noi giovanissimi che deleghiamo tutto è un grande insegnamento.
Perché per i tuoi racconti hai scelto storie di donne?
La questione femminile era un’urgenza che sentivo. Tutto il progetto sulle Resistenze femminili è nato dopo l’inchiesta della semiologa Giovanna Cosenza che ha chiesto ai suoi studenti bolognesi cosa pensassero del femminismo. E il risultato è stato spaventoso: l’opinione verso questo movimento era negativa. Ma perché, mi sono chiesta, visto che le donne sono ancora vittime di discriminazioni di genere? Così ho deciso di ragionare sui malintesi e di provare a smantellare i pregiudizi.
Nella prima tappa della trilogia sulle Resistenze femminili, «È bello vivere liberi!», siamo addirittura in una fase molto precedente rispetto al femminismo.
Già allora le donne avevano iniziato a pensare ad un ruolo diverso per se stesse. Anna Di Giannantonio sottolinea che mentre per gli uomini era necessario scegliere durante la guerra se combattere o disertare, alle donne nessuno chiedeva nulla, potevano tranquillamente restare a casa. Quindi niente è scontato. Così ho capito che la donna è una risorsa irrinunciabile per la pace e la democrazia.
Il secondo spettacolo, «La semplicità ingannata. Storie per attrice e pupazze» sul lusso d’essere donna, ci porta, invece, nel Cinquecento.
In quel periodo avere una figlia femmina era un problema. Le clarisse di Udine, di cui parla lo spettacolo, sono tutte monache forzate, cioè obbligate a farsi suore pur di rinunciare alle doti matrimoniali. Queste monache si rendono conto, ad un certo punto, di poter creare una comunità femminile protetta dall’ingerenza maschile. Capiscono che possono farlo attraverso la cultura e immaginano un modello nuovo in cui le donne possono emanciparsi solo se solidali. E per difendersi da chi vorrebbe attaccarle utilizzano proprio gli stereotipi femminili. Il loro progetto comincia a trovare sostegno e solidarietà anche fuori e la Chiesa inizia a spaventarsi finché capisce che non c’è altra cosa da fare che separarle.
Il terzo lavoro, infine, «Sorry, boys», chiama in campo anche l’altro sesso: gli uomini.
L’ultima tappa prende spunto da un fatto di cronaca successo a Gloucester del 2002, quando un gruppo di ragazze liceali rimasero incinte tutte insieme. La gravidanza sarebbe stata pianificata come parte di un patto segreto per creare una piccola comune femminile. Una delle ragazze confessa poi di aver voluto creare un piccolo mondo nuovo dopo aver assistito ad un terribile femminicidio. Sul caso sono stati girati film e se n’è parlato molto. In quella cittadina la polizia riceveva un numero elevatissimo di chiamate per violenza domestica. 500 uomini hanno marciato per le strade per sensibilizzare la comunità al problema. Mi sono accorta così che bisognava cambiare le cose e smetterla di nascondere i problemi sotto il tappeto.
Come è nato il tuo amore per il teatro di figura?
Da un laboratorio dell’artista catalano Joan Baixas, con cui ho approfondito i linguaggi del teatro visuale. Ho seguito un suo corso, e poi sono stata a bottega da lui. Mi disse: questa è la tua strada. E nel 2006 ho debuttato in Merma Neverdie, spettacolo con pupazzi di Joan Mirò e regia di Joan Baixas. Ho capito che anche i pupazzi, così snobbati in Italia, possono trattare temi forti e pericolosi, e parlare del potere.
E i tuoi pupazzi in che modo nascono?
Dalla fantasia… li immagino e poi cerco di trovare uno scenografo con cui collaborare. Per esempio per la schiera di teste mozze in Sorry, boys avevo pensato alle teste della serie fotografica «We are beautiful» di Antoine Barbot, ma non sapevo come fare per riuscire a far muovere le palpebre, la bocca, in modo tale da far sembrare le teste mozze più vive possibile, e poi con Paola Villani ci è venuta l’idea dei freni di biciclette. Per i pupazzi dagli occhi grandi di È bello vivere liberi!, invece, mi sono ispirata al mondo di Tim Burton. E poi avevo letto che durante la guerra andavano proprio in scena dei bozzetti drammatici che raccontavano la fine delle spie, quindi il linguaggio teatrale c’era e ne ho tratto ispirazione.
Stai già lavorando a nuovi progetti?
Proprio in questo periodo sono in residenza a Villa Manin, Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia, dove sto lavorando ad una nuova produzione della Centrale Fies che debutterà nell’autunno del 2018. Ho letto gli studi di Marija Gimbutas, archeologa lituana che compara i reperti archeologici con le tradizioni e ho ritrovato le stesse cose in certe storie della memoria popolare. Forse, ho pensato, avevano già scelto un modello sociale non condannato alla violenza e alla sopraffazione dei più debole. Lo spettacolo si chiamerà Il canto nero della caduta.