Da più di un decennio l’Osservatorio Outsider Art di Palermo diretto da Eva Di Stefano pubblica una rivista intitolata con il suo acronimo, O.O.A. I primi numeri sono usciti presso l’editore Glifo e ora, sempre a Palermo, la stampa è a cura delle Edizioni Museo Pasqualino, il Museo internazionale della marionetta, che ospita in questi giorni (fino al 15 luglio) la mostra Insomnia Cookies. Le marionette, i loro volti variegati, i loro costumi e copricapi sorprendenti ed eterogenei sono messi in dialogo con opere di artisti lgbtq che orientano la loro ricerca sul corpo e sulle sue infinite possibilità di cambiamento, trasformazione, deviazioni dalla «norma».

LE DEVIAZIONI dalla strada maestra dell’ordine socialmente accettato (o la semplice estraneità da esso) sono anche una costante dell’arte dei cosiddetti «outsider». Figure che in molti casi – non in tutti – sarebbero forse rimaste nell’ambito di un universo personale, praticando l’espressione artistica come passione, come auto-narrazione, come terapia, se non avessero incrociato studiosi che con altrettanta passione ne hanno accompagnato via via l’emersione. Ci sono ormai reti, associazioni, osservatori e mappature praticamente ovunque.
Nel caso della rivista O.O.A., Eva di Stefano coordina un’attività di censimento che è insieme accuratamente critica (una critica duttile per forza di cose) e umanamente coinvolta. Questo nuovo numero della rivista (il 17) è particolarmente ricco e – verrebbe da dire – quasi inafferrabile e non riassumibile come le storie da cui è composto, «storie di confine», «storie di artisti difficilmente classificabili».
Anzitutto gli artisti non sono tutti autodidatti come spesso gli outsider, alcuni hanno avuto una formazione accademica (per lo più rifiutandola: «Blalla» W. Hallmann) alcuni hanno fatto del luogo fisico in cui vivono (un luogo sperduto sulla costa della Galizia) l’oggetto della propria ricerca, intervenendo su di esso e al contempo modificando il proprio corpo in rapporto con l’ambiente («Man» Gnädinger, «figlio di Nettuno»). Alcuni sono arrivati all’arte svolgendo ricerche in un altro campo (Emma Kunz), altri ancora dipingono con vivezza e originalità il proprio mondo intimo, domestico (Sara Vinco), o il paesaggio contadino che hanno vissuto, con le sue specifiche attività perdute nell’antropizzazione vincente, offrendo tra l’altro molti spunti alla riflessione antropologica per via dell’occhio ravvicinato, vivacissimo ma molto preciso che li guida nella rappresentazione (Mancuso Fuoco).
Non mancano gli architetti anarchici che progettano edifici impossibili (Jean-Luc Johannet e la Cattedrale di Babilonia, titolo altamente significativo, visto che «babelico» è un’altra definizione per questo mondo), guidati da una forza immaginativa carica di potente utopia. Poi c’è una sorta di Arnheim croato (Emilan Grguric) che ha creato un suo giardino dell’Eden, forgiando la sua dimora in termini vegetali, popolandola di figure e storie scolpite. Nel resoconto che ne fa Pavel Konecný c’è anche un’altra tematica, dolente, che interessa molti dei siti creati dagli artisti irregolari: la loro conservazione.

UN CASO NOSTRANO è quello raccontato da Lorenzo Madaro: il Santuario della Pazienza di Ezechiele Leandro a San Cesario presso Lecce, con le sue innumerevoli sculture di malta cementizia frutto di una «calibrata frenesia». Un’opera delicata e potente al tempo stesso che rischia la rovina.
Sotto traccia, quasi una costante, il disagio mentale, la neuro-diversità che fanno a volte da sfondo, a volte da contenuto e sostanza di tanta arte irregolare. Tema che emerge con pienezza nella recensione/saggio di Valentina di Miceli sulla storia delle istituzioni psichiatriche pre e post Basaglia (mostra: La condizione umana. Oltre l’istituzione totale, Palazzo Ajutamicristo, Palermo). È il saggio finale di questo densissimo numero della rivista e ha un titolo quasi programmatico: «Alla ri-conquista del contenuto umano della nostra vita». Auspicabile antidoto al «tempo rabbioso» in cui viviamo.