Con La foglia di fico – storie di alberi, donne, uomini Antonio Pascale realizza un esempio perfetto di economia circolare: senza partitura narrativa in tre atti, all’autore dichiaratamente invisa, senza frasi a effetto, come quelli che non credono ai miracoli e poi li fanno riesce infatti nel prodigio di mettere insieme oltre che tutte le sue competenze (agrarie, narrative), anche quasi tutti gli ingredienti di un romanzo, in ordine sparso: amore, infanzia, traumi, estati, ricordi olfattivi, guerre, memorie familiari, scoperte , identità, terre, territori. LEGGENDO QUEST’ULTIMA felicissima (nel senso etimologico di feconda) autofiction polifonica di Pascale si può pensare alle atmosfere di Virgilio, vuoi per le Georgiche vuoi, soprattutto, per quel primo viaggio all’inferno e ritorno, quello che permette, se non di dipanare, almeno di avere chiari i fili in cui l’essere umano è costretto e poi imparare a conviverci.

LA NARRAZIONE è scandita dall’apparizione di piante, in quest’ordine: cactus, faggio, ciliegio, tiglio, pino, agrumi, olivo, quercia&leccio, fico, grano, precedute a ogni capitolo dalle tavole illustrate di Stefano Faravelli. Ma attenzione! Questa non è la raccolta di singoli raccontini sugli alberi ma la cronaca di una ricerca che passa tra alcuni dei più esemplari tra gli abitanti del Regno Vegetale di cui Pascale dispiega non solo simbologie ma morfologie già di loro molto eloquenti.

QUELLA DEL CACTUS inno di creatività e resistenza, tanto da popolare il giardino d’un reparto oncologico, e capace di assorbire la nebbia che il faggio sprigiona. Ci sono concetti che tornano e si rincorrono, la nebbia appunto e le ombre: quella proiettata dai tigli, quelle del purgatorio abitato dalle nostre anime in pena che il faggio consola, quelle che Galileo ha studiato sulla faccia della luna giungendo alla conclusione che anche quella del nostro satellite, come quella umana, è piena di rughe e cicatrici. Il disordine, l’entropia, la mortalità che l’orgasmo interrompe e poi restituisce. ll sesso, l’educazione sentimentale, indagata da Pascale già dai tempi della Manutenzione degli affetti.

LA VERITA’, VI PREGO, sull’amore, è l’implorazione sempre valida di Auden, percorre le pagine. Memorabili e buffe, quelle sul ciliegio e le prove tecniche di fioritura, dei frutti confusi con le amarene, marcatori dell’avvicinarsi del solstizio d’estate. In filigrana nella storia anche ecologica e tecnologica del Paese c’è il racconto di una famiglia, di certi legami parentali restituiti senza sentimentalismi: un padre che tiene in auto stivali di gomma per stare nella terra, una madre che prende notizie durante la spesa rionale e perché i fatti siano meno contundenti li attutisce con un raccolto di antefatti.

POCO IMPORTA SE SI TRATTI davvero della famiglia dello scrittore. Come l’alter ego di Pascale, Antonino, compagno di Scienze Agrarie con trenta e lode in Botanica Sistematica che torna in ogni capitolo con un bagaglio di sapere e smonta la tensione al suo acmè: ammo a fa na cazzata? È il refrain che alleggerisce il mondo e la trama.

LO SCRITTORE DEL RESTO per il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, valuta i danni delle calamità e la stessa cosa fa in questo libro, soppesa gli effetti dei colpi inferti più a meno a tutti dall’esistenza, individua lenitivi, placebo, cerca spiegazioni. La coscienza è come il sughero, dobbiamo smettere di essere umani, lavorare ad algoritmi capaci di trovare soluzioni a vecchi problemi in modo efficace. Lega ulivo e democrazia, nazionalismi e xylella fastidiosa, illustra la maledizione del leccio (tanto forte da aver fornito anche il legno per la croce di Cristo). Si perde nel grano e come nelle favole ritrova la strada seguendo una luce in lontananza e il profumo del pane; ricorda e racconta, parlando di graminacee e infiorescenze, i nostri corpi di carne e ossa desiderati e desideranti nonostante e in forza della loro comprovata fragilità.