Le colorate manifestazioni che hanno portato sulle piazze i giorni dell’orgoglio omosessuale, i lacci delle scarpe esibite dai calciatori nel loro ambiente così omofobico, le bandiera (Gay è Ok) sventolata di fronte a Putin da quella ragazzaccia di Vladimir Luxuria, chissà come le vivono oggi i protagonisti di “Felice chi è diverso”, il film documentario che Giani Amelio ha appena portato alla Berlinale e che esce domani nelle sale. Il regista con il suo sguardo umanistico dolce e deciso fa parlare signori anziani che erano ragazzini quando il fascismo indicava con decisione che «albero che non cresce bisogna spezzarlo», quando non era neanche concepibile pronunciare la parola «omosessuale», per poi spedirli insieme ai politici al confino nelle isole, la sera in carcere. Assistiamo a una storia d’Italia sorprendente, che alle nuove generazioni apparirà oscura. Ma attraverso le vicende delle persone che parlano così generosamente di sé potranno cogliere il dolore, la forza della trasgressione, l’oscurantismo di un paese che riesce a produrre ancora oggi cascami del passato. Inizia a passo deciso con la confessione di una madre torinese che, accortasi che suo figlio non era come gli altri ragazzini («più che altro pensavo che fosse un bambino calmo») infine lo porta da una dottoressa che le dice senza mezzi termini: «purtroppo avrà una brutta vita perché se fosse nato in ambiente signorile sarebbe stato protetto, ma nel ceto medio…». Amelio accompagna le vicende dei suoi protagonisti da Torino alla Sicilia, alla grazia della cultura dei vicoli di Napoli, a Roma con lo spiccio rimedio delle prostitute e l’universo clericale coperto di omertà. Li rende veri interpreti principali con quelle frasi che oscillano da un dialetto all’altro e che raccontano destini piuttosto simili, storie incredibili, protagonisti di quelli che il nostro cinema ha sempre messo da parte, al confine con la vecchiaia, miniere di racconti e di emozioni di un’Italia antica che bisogna conoscere. La loro aitante bellezza di gioventù appare come in un lampo nel fruscio delle fotografie velocemente scorse tra tutte quelle del passato, un bellezza di cui resta qualche traccia su quei volti pensosi, arguti, a volte anche sereni. E fu una giovinezza per lo più drammatica, che costrinse spesso alla fuga per non far più ritorno alle famiglie. Rispuntano in parallelo gli anni 50 e 60, gli stralci dalle riviste comiche del teatro, le scenette televisive degli imitatori, i personaggi che il cinema proponeva come macchietta, perfino talvolta quello d’autore, le riviste di destra “il Borghese”) accanite contro personaggi politici e soprattutto contro Pasolini, fonte di ispirazione di vignette a profusione. E le riviste «proibite» (dove però si poteva trovare la prima traccia della factory di Andy Warhol) che proponeva le foto dei misteriosi «balletti verdi». Si sente citare più di una volta la frase di Sandro Penna (da cui il titolo del film): «Felice chi è diverso essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune» e anche quella combattiva di Mario Mieli («non solo dobbiamo battere, dobbiamo combattere») che fondò il “Fuori!”(fronte unitario omosessuale rivoluzionario) nel 1971, diagnosticato dal suo psichiatra come affetto da sindrome maniaco depressiva. Gli ambienti protetti non sono solo quelli signorili, ma anche qualche volta quelli artistici: Ninetto Davoli racconta la meraviglia di ragazzetto calabrese arrivato per caso all’Acqua Santa su un set dove il fratello faceva il falegname («Ninè, questo è Pasolini, mi presenta. E poi vai a pensà che quest’uomo mi ha stravolto la vita»), il magistrale John Francis Lane, critico illustre, anche lui coinvolto da Pasolini anche come frate in “Canterbury” e la delizia assoluta che è Paolo Poli che continua sul palcoscenico «a svolazzare di qua e di là», figlio di una famiglia dall’intelligenza sopra le righe e che si ascolta sempre a bocca aperta, senza di lui il secolo sarebbe buio.