Esploratore esperto di zone sconosciute come sono state le musiche del folklore salentino prima dell’esplosione della notte della Taranta, i conventi di clausura (Il «Cibo dell’anima»), le confessioni di un ergastolano («Ossigeno») Piero Cannizzaro aggiunge ai suoi documentari ormai conosciuti internazionalmente anche Storie d’Africa, un lungo viaggio attraverso paesi da cui partono i migranti verso la mitica Europa, un viaggio spesso senza ritorno. Tra savane e villaggi si fa raccontare esperienze drammatiche da chi sta per partire o è tornato indietro mettendoci a contatto con una realtà sconosciuta, abituati come siamo alle cifre e non alle persone.
Un’ottica un po’ diversa, particolare da quello che si vede di solito.
Non si conosce la migrazione interna. È un tema talmente complesso e vasto, può essere affrontato nella sua dimensione «macro» come è successo in Italia e in America, noi stessi siamo frutto di emigrazione. E poi ci sono delle risposte «micro»: a uno che viene violentato sulla strada della Libia, non gli puoi fare il discorso sull’importanza delle migrazioni, quello deve risolvere il suo problema immediato.
Cosa ti ha spinto a partire?
Ero venuto a contatto con la cooperazione e sviluppo che stava organizzando la campagna «CinemArena», una carovana che va nei luoghi più sperduti, monta come fosse un «Nuovo Cinema Paradiso» uno schermo e mostra dei film sia sul tema dell’emigrazione che di intrattenimento perché il pubblico è composto di vecchi e bambini, uomini e donne, gente che non sa leggere, che non ha mai visto un film, dove non c’è la luce elettrica. Poi in una specie di cineforum delle persone addette che fanno capo alla cooperazione o allo OIM (l’organizzazione internazionale migrazione), fanno presenti le problematiche del partire «all’avventura». Il «CinemA rena» funziona già da dieci anni e ha fanno campagne sull’Ebola, sull’Aids e l’anno scorso sull’emigrazione. Loro volevano che si conoscesse quello che facevano e io ho proposto un progetto. A me interessava soprattutto conoscere queste persone, dare loro un volto. Noi siamo abituati a vedere queste persone come senz’anima, le vediamo su un barcone come in un corpo unico, senza identità. Invece hanno dietro una famiglia, dei rapporti, sono come noi. Poiché volevo dare loro un volto ho dato molta importanza al primo piano, vedere dove abitano: quello che fa il pane, quello che vive in un villaggio più o meno avanzato, dove a volte c’è la luce e a volte no. Alle volte in qualche tg si vedono delle interviste, ma quello che passa nell’immaginario sono quei barconi indefinibili di gente allo stremo. Non tutti scappano per la fame, ma anche per migliorare la loro situazione e nel loro paese vedi che hanno affetti, sviluppano ragionamenti. Volevo dare dignità a queste persone e capire cosa succede.
Quali paesi hai attraversato?
Sono stato un mese in Senegal, un mese in Costa d’Avorio e un mese in Guinea. Quello che ho imparato da queste persone è la parola «ricominciare», queste persone passano situazioni inverosimili, la maggior parte non è riuscita neanche ad arrivare in Europa. Tranne uno che era arrivato in anni passati quando era più facile, poi con l’esperienza che aveva fatto in Italia ha messo su una panetteria. Questa è una storia positiva, ma nell’insieme sono storie di persone che non sono neanche arrivate perché durante il viaggio ti rapiscono, vogliono altri soldi, sei arrivato alla barca, poi la barca si è rotta sei finito in una prigione libica. C’è una donna che aspetta ancora suo marito da dieci anni e ovviamente suo marito è una delle persone scomparse sotto il mare. Volevo soprattutto parlare di questa forza e a questo proposito voglio citare Erri De Luca che ha visto il film e lo ha sintetizzato come «un racconto di sopravvivenza che trasmette coraggio invece che disperazione» ed è vero perché dalle storie raccontate esce sempre non disperazione, ma, nonostante quello che hanno passato non manca la voglia di ricominciare. Questo è stato un grande insegnamento anche per me, noi di fronte a situazioni meno gravi ci fermiamo, loro hanno questa forza che li porta ad andare avanti. Ho sentito in Africa una grande energia, riescono a trasformare una grande negatività in qualcosa che li spinge avanti.
Ma quasi tutti quelli con cui hai parlato dicevano che hanno rinunciato al viaggio, anche se alcuni dicevano che avrebbero ricominciato. Sembrerebbe quasi inutile spiegare a quali difficoltà andranno incontro.
Lo devono decidere loro, ma è importante che abbiano la consapevolezza che in Europa, ammesso che ci si arrivi, non c’è l’Eldorado e questo lo cominciano a capire. Il rischio è che quando la gente arriva qui e raggranella dei soldi dà l’immagine di sé di una persona ce l’ha fatta. Uno che aveva cinque mucche, due il padre le ha vendute per farlo partire, quandolo hanno bloccato in Libia hanno venduto anche le altre tre ed è riuscito a ripartire, ma non ce l’ha fatta perché è stato di nuovo rapito. Non è che puoi bloccare le persone, ma intanto fai una pressione ai governi affinché si trovi una soluzione legale e fai presente che non è che sbarchi e trovi lavoro. Ho fatto tutta la traversata del Senegal e della Costa d’Avorio, dal sud al nord e sono arrivato in villaggi dove non c’è proprio informazione, anche se ormai la voce gira sui barconi che non ce la fanno ad arrivare. La storia del ragazzo che fa il pane, la classica baguette, aveva il suo ruolo nel villaggio, ma dice: «io voglio tentare perché sento che qualcuno ce l’ha fatta». È giusto che un ventenne sia motivato ad azzardare, ma è importante che anche lui che ha già un lavoro, sia avvertito che non è detto che in Europa ti accolgano a braccia aperte.
Io ho voluto scegliere, facendo un montaggio serrato, le diverse tipologie di persone: quello che parte, la donna che aspetta, quello che è partito ed ha visto dei morti sulle barche, quelli che pagavano di meno e li mandavano a prua dove era più facile essere spazzati via dall’onda.
Ho cercato insomma di capire quello che sta dietro alle immagini che vediamo. Uno dice: «Noi pregavamo dio che quello che stava male morisse così c’era più spazio e c’era più cibo da dividere, dei biscotti che ci lanciavano». Poi c’è quello che è tornato e se deve spendere 5000 euro, poi essere violentato e subire ogni angheria, restare bloccato in Libia, trovare lavoro per partire o tornare indietro, alla fine decide di restare nel suo villaggio.
Sono storie di speranza ma anche storie di fallimenti. Loro però i fallimenti li traducono in voglia di ricominciare come quello in Gambia che ha visto morti, è tornato e ha detto con 5000 euro posso mettere su qui una piccola impresa agricola. Il problema è che l’Europa e L’America devono smettere di spremere questi paesi, ma nel frattempo devi dare qualche risposta più immediata, più hanno informazioni meglio è.
Il film è scandito da molte scene di gruppi musicali.
La parte musicale insieme al cibo è una delle cifre dei miei racconti. Quando andavo nei villaggi cercavo i musicisti del posto (tra loro c’è anche il grande musicista senegalese Aliou Ndiaye), e infatti di musica e danza se ne vede molto nel film, è la parte più gioiosa e positiva e ti riconduce alle radici di un popolo.
Sono già state fatte varie proiezioni del film, quali sono i prossimi appuntamenti?
A Londra, Roma, Milano, Torino. La prossima data è il 10 dicembre a Parigi alla Maison d’Italie, alla presenza delle giornaliste Sylvie Braibant, Lady Ngo Mang Epesse e Marie-Roger Biloa esperte del tema dell’emigrazione. Alla Maison d’Italie ho già fatto varie proiezioni dei miei film tra cui Ossigeno. Erri De Luca aveva presentato Ossigeno a Parigi, e nel suo ultimo libro Il giro dell’oca mi ha fatto un bel regalo citandolo, facendo dire a un personaggio (il suo figlio ipotetico) le parole del film sul tema dell’amore.