Seguire le vicende coreane negli ultimi tempi ha significato per lo più occuparsi di scontri diplomatici, valutazioni sulla gittata dei missili, terremoti a seguito di esperimenti nucleari, e perfino dello sfogo da adolescenti sulle diverse ampiezze dei «bottoni nucleari» da parte di Kim e Trump.

È CON GRANDE EMOZIONE, dunque, che si è goduto della giornata di ieri, un inno alle buone intenzioni, conclamate dalla dichiarazione ufficiale finale che prevede un trattato di pace tra le due Coree da firmare entro la fine dell’anno e lascia piuttosto sospesa la questione legata alla denuclearizzazione. Quella stretta di mano tra Kim Jong-un e Moon Jae-in, però, insieme all’improvvisata di Kim che ha portato Moon a mettere entrambi i piedi anche al di qua del confine nord coreano, e le loro parole, «la guerra è finita», vanno sicuramente celebrate.

Lasciando poi da parte l’emozione bisogna specificare che nelle dichiarazioni conclusive riguardo il tema caldo della denuclearizzazione, vengono indicati auspici e nulla più. Insieme alla possibilità di nuove cooperazioni economiche tra le due Coree, si lascia intendere che – forse – gli aspetti più scorbutici di questa dinamica diplomatica potrebbero essere lasciati a Donald Trump e all’incontro che dovrebbe avere con Kim tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Rimane il ricordo di una giornata storica per diversi motivi: alcuni oggettivi, altri potenziali.

KIM JONG-UN è il primo leader nordcoreano a varcare quel confine con il sud rappresentato da un piccolo scalino: un ridicolo orpello deciso al termine di una guerra su cui fin dal 1953 pesa un armistizio e non un vero e proprio accordo di pace. Quanto alle potenzialità: se si arrivasse al trattato sarebbe una svolta clamorosa per tutta la regione. Significherebbe che il sud riconoscerebbe, di fatto, il nord. E il protagonista di questo avvicinamento è senza dubbio Moon Jae-in, ex avvocato per i diritti civili e figlio di madre e padre nordcoreano scappati a sud proprio durante la guerra.

Questo desiderio di riunificazione e di una politica aperta – Moon era anche nell’entourage dell’unico altro presidente democratica a Seul che aveva proprio inaugurato la «sunshine policy» nei confronti del nord – hanno di sicuro accelerato i tempi.

SOLO UN ANNO FA quanto accaduto ieri a Panmunjeom, sembrava impossibile. Moon si è armato di pazienza, capacità di mediazione e grande strategia nel cogliere il momento opportuno, le Olimpiadi invernali, per arrivare a un punto di distensione di non ritorno. Non tutto è risolto: la questione della denulclearizzazione è stata garantita dalla Corea del sud anche nelle dichiarazioni di Seul al termine dell’incontro ma non pare ci siano ancora all’orizzonte tempi e modalità per andare a verificare.

L’ALTRO GRANDE VINCITORE di questa giornata è chiaramente Kim Jong-un le cui abilità strategiche, nonostante la sua indole dittatoriale e il suo ferreo controllo interno, non possono che essere riconosciute. Kim ha ottenuto in poco tempo quanto il padre e il nonno non erano mai riusciti a raggiungere.

Se a questo successo diplomatico aggiungiamo le sicure battaglie interne che Kim ha dovuto combattere per mantenersi al potere una volta che il padre è morto (nel 2011), abbiamo di fronte l’immagine di un millennial alla guida di una potenza nucleare e in grado di portare a un tavolo Moon, Xi Jinping e niente meno che Donald Trump. Se infatti la giornata di ieri è stata tutta coreana, gli spazi diplomatici che ha aperto finiscono per allargare quanto meno a Cina e Usa il discorso. A questo proposito bisognerà verificare alcune condizioni: intanto che l’incontro Trump-Kim si realizzi.

NEI PROSSIMI GIORNI Moon andrà negli Usa a preparare il summit; in secondo luogo bisognerà vedere che Trump vorrà tirare dentro anche il Giappone, suo unico alleato in Asia senza ombra di dubbi. A quel punto anche la Russia dovrebbe presenziare in quello che potrebbe essere un ritorno, per quanto riguarda il nucleare, al «dialogo a sei».