Un giorno mi imbattei nella pagina web del docente di una famosa università, fino a pochi anni prima attivo come francesista, esperto di Balzac: appariva sulla home page guardando in camera, e nelle mani protese verso l’obiettivo reggeva un cervello umano (spero in polivinile). Fu il mio primo incontro con le Neurohumanities, quella disciplina che, qualche mese dopo, Fredric Jameson avrebbe definito, con la sua consueta ironia, «nuovo materialismo pre-dialettico». Intorno si attardavano le sirene di un decostruzionismo malamente mischiato ai Cultural Studies.

Nessuna speranza di oggettività era lasciata sopravvivere: tutto si risolveva nel sintagma «costrutto sociale», tribunale supremo che, per un malcelato equivoco, deponeva le armi solo davanti alla sacrosanta libertà individuale (l’io, io!) di riconoscersi parte di uno di quei gruppi che formano le identity politics. Se un amico alla guida correva un po’ troppo, «vai tranquillo – gli si diceva – che tanto la morte è un costrutto sociale!».
Fra il preteso oggettivismo con il quale si elargiscono i fondi di ricerca a intellettuali neo-positivisti che fantasticano di non essere subalterni a nessuno (e intanto si accodano allo spirito del tempo) e la deregulation epistemologica incapace di riconoscersi a sua volta come dipendente dalle spinte oggettive della prassi storica, la critica letteraria vivacchia in forma di residuo formale di ideologie e formazioni sociali storicamente perdenti. Il suo destino sembra, oggi, quello di decadere a prodotto culturale meritevole di un po’ di compassione, qualche disprezzo e molta nostalgia.

Non c’è una sola ragione storiografica a determinare il campo della crisi, in primo luogo perché questa si origina da una serie di fattori che si dispiegano su coordinate storiche assai differenti e lontane. Quello che resta il fulcro del nostro ingresso nella modernità, il decadimento del concetto retorico-imitativo di modello, non spiega le condizioni attuali. Il passaggio da ciò che Jacques Rancière chiama «regime mimetico», fondato su una affinità fra contenuti e loro rappresentazione, a quello che chiama «regime estetico» (avvenuto grosso modo nel primo Novecento) ha intaccato solo in parte la capacità del critico letterario di farsi interprete e guida del gusto (e ovviamente dei valori retrostanti).

Le ragioni di un declino
L’indebolimento stesso del mandato sociale conferito all’intellettuale tradizionale, avvenuto negli stessi anni, è stato bypassato attraverso una serie di accorgimenti culturali che hanno rilanciato il ruolo del critico all’interno di una società allargatasi e dunque bisognosa di rimodulare le proprie operazioni riguardo allo sviluppo ideologico e al consenso.
La formazione dei gruppi intellettuali (i Manifesti), le azioni collettive a difesa di un nucleo poetico o interpretativo, l’idea di «impegno» nel dopoguerra, vivono tutti – con obiettivi e letture differenti del reale – della stessa necessità di riformulare il ruolo dell’intellettuale e di mantenere vivo il contatto (sia anche il caso contro-egemonico del nazional-popolare di Gramsci) fra valori ideologici ed estetici, vale a dire fra i valori estetici e la percezione culturale del reale.

La cosiddetta «fine delle grandi narrazioni» ha certo minato seriamente i procedimenti ideologico-culturali che avevano permesso alla figura dell’intellettuale di sopravvivere, sebbene con un mandato sociale ridotto, erodendo la forza del campo umanistico e creando la definitiva e gerarchica separazione fra i nuovi veicoli di trasmissione ideologica (televisione, giornalismo, internet, letteratura di consumo) e gli spazi tradizionali (l’accademia, le riviste specialistiche, e così via). Mentre il campo sociale e quello scientifico sono riusciti a instaurare un rapporto stabile con le aree culturali destinate alla produzione del consenso, il campo umanistico «alto» ha smarrito il contatto con i nuovi veicoli preposti alla sua diffusione.

Persa definitivamente la sua ragione sociale, l’intellettuale si ritrova così bloccato in uno spazio di produzione ideologica (la torre d’avorio dell’università) che, separato da quello che Gramsci avrebbe chiamato il suo inveramento sul piano del consenso, finisce per dubitare di sé, riconoscendosi come falsa coscienza. Con queste premesse, a quello stesso intellettuale restano più o meno due scelte: o si auto-estrania, come Harold Bloom che continua a difendere, contro tutto e contro tutti, il valore del canone, oppure muove (lo si vede negli Stati Uniti) verso le scienze dure, è appunto il caso delle Neurohumanities, o verso le scienze sociali, ed è il caso dei Cultural Studies.
Se la critica letteraria è entrata in crisi, lo si deve a due ragioni in stretto rapporto tra loro: da un lato, a venire compromesso è stato il ruolo del sapere umanistico «alto» nella costruzione ideologica del consenso, quando sono decadute le grandi costruzioni ideologiche a quello collegate; dall’altro è crollata la necessità di appoggiarsi ai valori estetici nella costruzione delle direttive ideologiche e in quella del consenso. In questo senso, la crisi della critica è davvero, come voleva Guido Guglielmi, crisi della letteratura: non perché una discenda dall’altra, ma perché le coordinate storiche del loro declino sono le stesse. E trincerarsi nella difesa di una qualche superiorità del sapere umanistico tradizionale fa sentire chiusi nelle fattezze un po’ ridicole di un «cavaliere dalla triste figura».

A proposito di idee dominanti
Diversamente da altri saperi, la critica letteraria ha ancora la possibilità di dare un contributo, che in parte si origina dalla necessità stessa di riconoscersi in crisi, e che non può non tenere conto del fatto che le forme dell’interpretazione sono soggette alla storia, dunque alla dialettica che intrattengono con le trasformazioni sociali. Di fronte a un oggettivismo che si pretende naturale e a un anti-oggettivismo che, esasperando il proprio limite, inevitabilmente lo colloca fuori dalle possibilità di trasformazione del reale, forse la critica letteraria potrebbe tornare a un esercizio che, soprattutto in Italia, le è riuscito molto bene: storicizzare i precedenti orizzonti ideologici.
Storicizzare i precedenti orizzonti ideologici non è mero culto dell’antiquariato né semplice conservazione, ma serve a rivelare la natura storica e fenomenica degli orizzonti ideologici e delle conformazioni sociali, passate come presenti. E a ricordare che «le idee dominanti sono in ogni epoca le idee delle classe dominante».