Negli anni sessanta una formidabile fioritura di narratori latinoamericani si espresse in una trentina di romanzi che situarono una regione, fino a quel momento periferica, al centro della letteratura mondiale.

Solo una confusa strategia commerciale li classificò in massa sotto l’etichetta del «realismo magico», benché pochi dei loro romanzi vi si potessero ricondurre: mostravano, infatti, radici diverse e un futuro di più ampia prospettiva. Di quel gruppo rimane oggi Mario Vargas Llosa, l’enfant prodige che sorprese tutti con il suo primo romanzo, La città e i cani, pubblicato nel 1963 a ventisei anni, avvio di una lunghissima carriera. Quel libro rivelò una magnifica capacità di costruire perfette macchine narrative, nel tempo divenute una galleria di storie con memorabili protagonisti, che niente avevano a che vedere con il realismo magico.
In occasione di un doppio anniversario, gli ottant’anni e i sessanta dalla pubblicazione del primo racconto, Vargas Llosa ha regalato ai lettori il suo diciottesimo romanzo, Crocevia (Einaudi, traduzione di Federico Niola, pp. 239, € 19,50), di cui ha lui stesso riassunto genesi e sviluppo: l’idea – scrive – «nacque con l’immagine di due amiche che all’improvviso una notte, in un modo del tutto inatteso, vivono un’avventura erotica. Poi si andò trasformando in una storia poliziesca, quasi un thriller, e il thriller pian piano divenne un affresco della società peruviana negli ultimi mesi della dittatura».
Stando a quanto ha scritto un critico del Pais, Crocevia riassume cinque «assi portanti» della narrativa di Vargas Llosa, «l’analisi del giornalismo, il Perù, il potere, l’ipocrisia e l’erotismo. Al centro e intorno a tutto, sempre, lei: la libertà».

Il romanzo sarebbe dunque una sorta di summa dell’opera dell’autore peruviano, il sigillo della sua carriera, se non fosse che l’intreccio dei temi diviene un sovrapporsi meccanico, e la macchina narrativa sembra qui un drone telecomandato che osserva freddamente dall’alto, con il risultato di alterare e distorcere la percezione della realtà. Ad esempio, l’iniziale scintilla erotica moltiplica nel libro le scene di sesso, eppure non si va molto oltre quel che potrebbe offrire un patinato film porno, ambientato nelle lussuose alcove dell’alta borghesia imprenditoriale, assai lontane dalla complessità dell’erotismo dei Quaderni di Don Rigoberto che si intrecciava con la pittura, l’arte, e le ambigue relazioni familiari.

Vargas Llosa è stato maestro nel mostrare l’ipocrisia spesso nascosta nella sotterranea violenza del potere, la volontà di celare scheletri impresentabili dietro facciate di conformismo perbenista, e il risultato migliore lo ha raggiunto quando ha scelto la via della satira: in Pantaleón e le visitatrici, per esempio, romanzo corale a suo tempo ingiustamente considerato minore.

In Crocevia, invece, l’ipocrisia diffusa pretende di nascondere le effettive condizioni del paese, che tuttavia rimangono sullo sfondo, quasi invisibili. Il personaggio simbolo dell’ipocrisia regnante – Rolando Garro, direttore della rivista scandalistica al centro della storia – si trasforma in una macchietta guidata da stupidità e ambizione, tanto prevedibile da apparire scontata: rappresenta il giornalismo pettegolo capace di rovinare vite e carriere, e Vargas Llosa intende contrapporlo a quello eroico che può addirittura provocare la caduta di regimi dittatoriali e liberticidi. Ma questo confronto, privo com’è di chiaroscuri, risulta manicheo e non si spiega la trasformazione della Retaquita da «discepola prediletta del giornalista più famigerato del paese in materia di maldicenze e di scandali» a paladina della libertà, che mette in gioco la sua vita per rivelare le oscure trame dei servizi segreti.

Anche qui siamo lontani dalla figura affascinante dell’anonimo giornalista miope che ha animato La guerra della fine del mondo, il quale si lanciava – in quella storia di malintesi – in una disperata ricerca della verità, attraversando una giungla inestricabile di interpretazioni possibili.
Quel personaggio nasceva, anche lui, come uno scribacchino da strapazzo, che vendeva uno scarso talento a fogli antagonisti, capace però di cambiare poco a poco il punto di vista, di abbandonare pregiudizi e stereotipi. La scrittura giornalistica era lì lo strumento per raggiungere una percezione più profonda di quella iniziale, volgarmente superficiale.

Anche in Crocevia, la violenza del potere – autentica ossessione dello scrittore peruviano – non poteva mancare: ce ne ha consegnato incisive indagini nello spazio chiuso del collegio militare in cui si svolgeva La città e i cani, o nel paradiso caraibico dominicano tiranneggiato da Trujillo, in La festa del caprone. Rispetto a quelle parabole terribili, Crocevia dà una rappresentazione da serial americano di serie b, talmente stereotipato da risultare inverosimile. Eppure si trattava di descrivere il governo di Alberto Fujimori, dietro il quale operava l’anima nera di Montesinos, il Doctor a capo della polizia segreta, protagonista della svolta autoritaria degli anni novanta. Se nel romanzo appare come il responsabile della morte di Rolando Garro – che però è talmente invischiato in infamie varie che il lettore quasi tira un sospiro di sollievo – nei passi successivi sembra piuttosto un dilettante della repressione, tanto da venire travolto, in maniera abbastanza ingenua, dalle sue stesse trame. Una rappresentazione ancora più frustrante se la si paragona al ritratto articolato, che del Perù anni novanta, oscuro e violento, scrissero altri autori, fra i quali Iván Thays, Daniel Alarcón, Alonso Cueto.

In Crocevia, invece, tutto gira intorno alle riflessioni dei personaggi delle classi alte, che si ritengono vittime di una situazione giudicata dalle terrazze dei loro appartamenti o dalle residenze di Miami, dove si rifugiano per sfuggire «gli attentati e i rapimenti di Sendero Luminoso e del Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru, i black-out serali quasi quotidiani dovuti ai sabotaggi dei tralicci elettrici che lasciavano al buio interi quartieri della città, e le esplosioni con le quali i terroristi svegliavano nel cuore della notte e all’alba gli abitanti di Lima».

Solo una lista asettica, senza domande su ragioni e conseguenze: certo, è la prospettiva di alcuni dei protagonisti, ma il loro è l’unico punto di vista. Paragonata alla riflessione sul destino del Perù che si trovava in Conversazione nella Catedral, o in Storia di Mayta, questa sembra una occasione perduta, e fa pensare che Vargas Llosa non abbia più granché da dire su un Perù molto cambiato dagli anni in cui lo ha lasciato.