La storia delle emozioni, lanciata nel 1941 sulle mai abbastanza celebrate Annales da un pionieristico articolo di Lucien Febvre su La sensibilitè et l’histoire, non ha avuto finora molto seguito almeno fino agli anni 2000, quando è timidamente emersa una «svolta emozionale» che ha portato all’elaborazione dei concetti di «comunità emozionale» (Barbara H. Rosenwein), di «regime emotivo» e di «emotivo» tout court (William M. Reddy). È in questa scia che si inserisce Medioevo sensibile Una storia delle emozioni (secoli III-XV) (Carocci «Frecce», pp. 388, euro 32,00) di Damien Boquet e Piroska Nagy, con traduzione, non facile e quasi sempre eccellente, di Gian Mario Cao. I due autori sono ben consapevoli delle insidie di un’indagine su oggetti così sfuggenti: in primo luogo per la tipologia delle fonti che, essendo scritte, costituiscono solo una filtrata mediazione del reale, e in secondo luogo per la terminologia, che non consente una corrispondenza precisa nel lessico delle emozioni fra lingue moderne e documenti antichi, prevalentemente in latino, più raramente in antico francese.
Nonostante questi limiti, connaturati a qualsiasi ricerca del genere, e il raggio forse troppo vasto della ricerca, che intende coprire quasi un millennio di storia del continente, Boquet e Nagy sono riusciti a dipingere un affresco di lettura attraente, con contenuti relativamente nuovi e attendibili. L’impianto è cronologico e il filo rosso delle fonti punta sui testi ecclesiastici «culturali» (trattati filosofici e lettere) escludendo sia le fonti documentarie, che su questo tema sarebbero state inevitabilmente più aride, sia – come purtroppo fanno quasi tutti – fonti letterarie e poetiche, che certamente avrebbero potuto fornire materiali più vivi e che qui sono richiamate solo in rari casi (le poesie di Alcuino di York). Fondarsi su trattati genera una sorta di equivoco permanente che indebolisce l’analisi, attribuendo statuto di «emozione» a ciò che gli antichi studiano come affetti o addirittura vizi e virtù, ma conferisce una maggiore coerenza all’impianto.
Medioevo sensibile parte dal tardo impero romano, formalmente pre-medievale, come periodo di fondazione di un paradigma di «affettivizzazione» della vita pubblica e privata dovuto alla ristrutturazione cristiana delle basi culturali ed etiche e all’introduzione dello scenario soteriologico, che si affianca a quello puramente antropologico dell’antichità. Emblematiche su questo piano le posizioni di Lattanzio, che rifiuta le teorie storiche sull’apatia valorizzando l’apporto delle emozioni (affectus) alla vita dell’uomo e di Agostino, che lancia in forma occasionale i primi semi di una nuova antropologia delle emozioni, intenzionalmente autonoma dalle basi filosofiche greche.
Ma la vera svolta si verifica nel primo medioevo, quando Evagrio Pontico e poi Cassiano, pionieri della cultura monastica, fondano una teoria degli affetti nel tentativo di catalogare vizi e virtù, da una parte recuperando l’eredità platonica, che guida i monaci a un dominio assoluto sul corpo; dall’altra creando un super-affetto, l’amicizia, che assume un profilo intimo e pervasivo (completamente nuovo rispetto a quello sociale dell’antichità classica) e diventerà dominante sia negli ambienti unisessuali dei monasteri sia, per travaso scolastico, su tutte le espressioni letterarie dell’alto medioevo. Descrivendone le applicazioni «laiche» Boquet e Nagy si soffermano opportunamente sui fondamenti giuridici del concetto di amicizia nell’alto medioevo franco, le cui leggi facevano di questo sentimento un’espressione pubblica e comitale di solidarietà familiare e politica. La convergenza di valori plurimi sull’amicitia ha come conseguenza, fra le altre, l’intensificarsi di termini di tenerezza anche in lettere ufficiali, istituzionali, scolastiche o militari, che arrivano a sfiorare sfumature erotiche oggi valorizzate ampiamente, anche oltre quanto consenta una corretta interpretazione filologica, in raccolte di testi di letteratura a orientamento omosessuale molto diffuse sulla Rete. A questa forzatura strizza l’occhio anche Medioevo sensibile, in poche pagine dedicate alle coppie di eroi maschili (come Orlando e Olivieri nella Chanson de Roland), espressione di quella che gli autori chiamano «omoaffettività aristocratica».
L’amicizia diventa così il perno sia delle relazioni ecclesiastiche sia di un mondo di valori nobiliari che presto saranno santificati dall’etica e dall’etichetta cavalleresche. Fin d’ora, «il vocabolario dell’amicizia o dell’amore spirituale delimita in primo luogo le reti relazionali».
Questo quadro vira gradualmente verso tonalità sempre più intense nel monachesimo riformato dell’XI secolo (camaldolesi, cisterciensi ecc.), fino a confluire nell’«invenzione dell’amore», come è stata chiamata già nei secoli scorsi, che domina il XII secolo creando la cultura e la poesia cortesi e la nuova tipologia di definizione dell’amore che, in un breve giro d’anni, è fatta oggetto o paradigma specifico di almeno una decina di trattati sia telogici sia mistici sia profani: fra questi il celebre De amore di Andrea Cappellano, qui presentato come fonte del modello di eros eterosessuale e considerato «l’unico tentativo del XII secolo» di teorizzare l’amore cortese, mentre agli storici della letteratura sono noti anche altri testi, come l’anonimo De zelotipia, tradotto in italiano molti anni fa da Eugenio Massa, per non parlare delle più tarde teorizzazioni in versi, come il Roman de la Rose e i suoi derivati anche italiani (il Fiore pseudodantesco).
Nella valorizzazione di quelle che Boquet e Nagy chiamano emozioni positive (gioia, desiderio, godimento) sembra farsi strada una sorta di inedita tolleranza verso le loro manifestazioni fisiche e quindi verso una nuova cultura del corpo, non più demonizzato come nella fase platonico-ascetica dell’alto medioevo monastico. Lo testimoniano espressioni «materiali» del De amicitia di Aelredo di Rievaulx e testi d’eccezione come I quattro gradi dell’amore violento in cui Riccardo di San Vittore, o chi per lui, introduce la panoplia metaforica della malattia d’amore (colpo, ferita, sangue, febbre, sofferenza, catena ecc.) che fornirà topoi di immenso successo alla lirica provenzale, stilnovista, petrarchesca.
Un rovesciamento dell’attitudine si registra fra XII e XIII secolo nella filosofia scolastica, cui si è fatta risalire «l’invenzione dell’antropologia» in quanto scienza delle connessioni fra emozioni e fisiologia umana. In questo capitolo interessantissimo (il VI) si esaminano le posizioni dei teologi che, come Abelardo, introducono distinzioni fra l’istinto naturale, a loro avviso non condannabile né giudicabile, e l’adesione dell’anima a un moto riprovevole: una strada che porta all’analisi dell’emozione fisica come fenomeno indipendente, ricondotto spesso alla teoria ippocratica dei quattro umori e temperamenti (collera, flemma, bile gialla, bile nera o melancolia) rispetto al sentimento spirituale. Qui il modello più raffinato è di Arnaldo di Villanova (m. 1311), che distingue tra cause esterne di percezione sensoriale, cause interne di valutazione dell’impulso e predisposizione a una risposta da parte degli umori specifici dell’individuo.
Cominciano così a comparire i primi rimedi fisico-emotivi: i bagni d’acqua salata contro la tristezza (antenati della talassoterapia?), tisane di cannella e finocchio come ansiolitici, mentre contro la depressione Taddeo Alderotti consiglia un cambio di regime alimentare associato a un mutamento di abitudini: vestirsi meglio, ascoltare musica, godere le gioie della vita. Si sviluppa così una medicina psicosomatica rifessa perfino nel concilio Laterano IV del 1215, che consiglia ai medici del corpo di invitare i pazienti a consultare prima un medico dell’anima. E comincia lo studio del mal d’amore così ben documentato da Natascia Tonelli in Fisiologia della passione (2015). Questa è ciò che gli autori definiscono «antropologia riconciliata», tipicamente cristiana, che chiude radicalmente col dualismo platonico e stoico. All’antichità ci riconduce invece uno dei capitoli finali, dedicato ai sentimenti dei prìncipi, che già i classici (si pensi al De clementia o al De ira di Seneca) avevano provato ad analizzare in funzione di sussidio all’analisi ed elaborazione di strategie di gestione del potere. Ma non poteva mancare uno dei versanti più esplorati dell’antropologia medievistica, cioè l’emozione mistica, la cui espressione Claudio Leonardi e Gianni Pozzi avevano già mirabilmente valorizzato negli anni ottanta, anche se questo filone di studi in italiano non è sfruttato da Boquet e Nagy: qui non si poteva dire molto di nuovo, ma certo in un percorso progressivo sulla storia delle emozioni acquista nuova luce la valorizzazione del linguaggio «incarnato» che si affaccia nelle stimmate di Francesco d’Assisi o nelle visioni di Angela da Foligno, con la forte presenza di similitudini erotiche e di ebbrezza del sangue destinate a largo séguito nella devotio moderna del beghinaggio nordeuropeo e nell’immaginario del cattolicesimo barocco. Di ancor maggiore freschezza il capitolo conclusivo sulle comunità emotive e le loro espressioni rituali, dai festini alle cacce alle processioni, nel tardo medioevo, quando la condanna dell’autorità civile di Orvieto contro manifestazioni estreme del dolore (fino al denudamento) durante cerimonie funebri rivela una tensione all’ostentazione emozionale che rimane un valore nobiliare e cavalleresco ma da cui le istituzioni politiche «nuove» del XIII secolo si vogliono emancipare canalizzandola. Una forma alternativa di gestione e utilizzo delle emozioni collettive è la cosiddetta «pastorale delle emozioni», così definita da Carla Casagrande, che viene accuratamente illustrata nei trattati sulla predicazione, abituati a insistere soprattutto sul terrore dell’aldilà ma anche a utilizzare modi umoristici per attirare l’attenzione degli ascoltatori, fino a generare un vero e proprio teatro omiletico con Roberto d’Uzès a fine Duecento.
Certo le emozioni di cui parla Medioevo sensibile sono quasi sempre sentimenti concettualizzati, costruzioni metaforiche, oggetti teologici. Ne restano fuori la malinconia, il rimpianto, la sorpresa, lo smarrimento, il delirio sensuale, lo sconcerto, la speranza, la solitudine, il disprezzo, la ribellione, la dolcezza, la tenerezza filiale o genitoriale, insomma tutte le emozioni vere che non troveremo mai nei trattati o nelle summae ma solo nella poesia, estranea all’affresco di Boquet e Nagy e da quasi tutte le ricostruzioni storiche. Medioevo sensibile effettua comunque un primo meritorio e preziosissimo passo verso la storicizzazione delle emozioni che supera vecchie dicotomie fra psicologico e sociale e analizza la rappresentazione dei sentimenti come modi di comunicazione sociale e come conseguenze della rivoluzione culturale portata dal cristianesimo, che cominciò a sperimentarla nei laboratori dei primi monasteri fino a elaborarne un modello antropologico nuovo.
Ma la dolcezza della nostalgia che Valafrido, scrivendo a metà IX secolo dal palazzo reale all’amico Gotescalco, prova verso la loro scuola d’infanzia nell’abbazia di Reichenau, quando erano «poveri entrambi ma entrambi giovani» alla luce delicata di un’amicizia fatta di emozioni impalpabili e private, potremo recuperarla solo negli asclepiadei che nessuna analisi sociale prenderà mai in considerazione.