Se per la cultura europea i testi del mondo greco-romano sono stati un elemento portante dell’identità, la storia della filologia classica è un aspetto della storia d’Europa: la delinea il denso profilo a più mani, curato da Diego Lanza e Gherardo Ugolini per Carocci (Storia della filologia classica, pp. 408, euro 34,00). La «scienza» che ha come oggetto l’edizione e l’interpretazione dei testi classici (ma non solo) si definì come disciplina autonoma a partire dal Settecento, dopo una lunga elaborazione anteriore che ebbe tra i protagonisti Richard Bentley (1662-1742). La stagione decisiva fu però l’Ottocento, e la terra d’elezione la Germania: la quale mantenne fino alla seconda guerra mondiale un ruolo centrale in questa disciplina, pur paneuropea. Grazie ai suoi apporti, la filologia classica, senza rinunciare al carattere tecnico, rivendicò per sé il ruolo di accesso privilegiato (per certi aspetti, l’unico) al patrimonio culturale degli Antichi. La pervasività dell’influsso che esercitò ben si coglie nel settore dell’educazione. Il progressivo radicamento della disciplina nelle università tedesche, a partire dall’azione di Christian Heyne (1729-1812) e Friedrich Wolf (1759-1824), impose la centralità degli studi di greco e latino nell’istruzione: ne nacque il concetto, unitario e rigoroso, della Altertumswissenschaft, la «scienza dell’antichità». Il processo fu accompagnato da una seria riflessione pedagogica: nel 1809 Wilhelm von Humboldt (1767-1835) teorizzava l’importanza degli studi di greco e latino per «imparare a imparare» (Lernen des Lernens), un’idea vitale ancora oggi, al tramonto inesorabile dell’educazione classica. Altro aspetto centrale è il problema del metodo, della «scientificità» oggettiva richiesta dal lavoro filologico. Nel tempo si ebbero al riguardo orientamenti diversi e accesi dibattiti. Il più influente e decisivo fu quello tra «filologia formale» e «filologia storica», che segnò la grande stagione dell’antichistica tedesca nel XIX secolo nelle contrapposte figure di Gottfried Hermann (1772-1848) e August Böckh (1785-1867): se cioè la filologia dovesse concentrarsi sui problemi di edizione e interpretazione di testi letterari, o considerare piuttosto la totalità dell’esperienza storica classica. E certo, se qualcosa la filologia ha «insegnato» oltre il proprio specifico ambito, è proprio la continua riflessione sulla disciplina, sull’oggetto, sul metodo, sulle finalità. Il filone principale e più influente della ricerca fu incarnato dall’autorevole Ulrich von Wilamowitz (1848-1931), che impostò un ideale fatto di conoscenza perfetta delle lingue e delle biblioteche greca e latina, e si batté per una esegesi dei testi documentata e totale, contro le vaghezze dell’estetica e contro l’erudizione dell’antiquaria. A tale altissima concezione del ruolo del filologo classico corrispondeva di fatto un pesante pregiudizio classicistico. L’idea che la Grecia fosse l’immagine archetipica della cultura tedesca comportò l’esclusione delle lingue del Vicino Oriente. demandate ad altri specialisti: e tale spaccatura del collegium trilingue (che prima comprendeva stabilmente anche l’ebraico: come in Leopardi) ebbe conseguenze di grande momento per la vicenda culturale europea. Ma la centralità che i filologi classici pretendevano per sé non resse. Una radicale messa in discussione venne da Nietzsche, che dal mondo della filologia proveniva, e che perciò fu più preciso nel colpire: l’orgoglio metodologico dei filologi gli appariva una barriera autoreferenziale, che procurava il fraintendimento e la morte del suo stesso oggetto. La «casta» si difese con forza, ma certo è dal ripensamento di Nietzsche che sono derivati, tardivamente, gli spunti per una lettura nuova e anticlassica dell’antichità, liberata finalmente dal «miracolo greco» e dal mito della perfezione inarrivabile, e riletta invece in tutte le sue perturbanti inquietudini. Dalla politica (e dalla tecnica) giunse invece il progressivo smantellamento, a partire dal 1890, del «ginnasio umanistico», che dell’ideale classicheggiante era la base, a livello della formazione: un’azione analoga a quella che oggi sta facendo morire in Italia il liceo classico. Venne poi l’effetto devastante delle ideologie: strettamente legata ai nazionalismi fino alla Grande guerra europea, la filologia venne seriamente sfidata nel suo primato culturale: invano Werner Jaeger tentò, con il suo «terzo Umanesimo», di conservare alla paideia classica il ruolo che le veniva negato dal paganesimo nazista. Quanto all’effetto dell’orgia romana voluta del fascismo, come disse Momigliano, esso «non sta nelle sciocchezze che si dissero, ma nei pensieri che non furono più pensati». Da quella crisi nacque però un travaglio sofferto. Si cercò anzitutto di riconquistare la «purezza» della scienza, rifugiandosi nella «tecnica»: lo mostra l’opera di Giorgio Pasquali (1885-1952) e di Sebastiano Timpanaro (1923-2000), che ripensarono metodi e fondamenti dell’edizione dei testi, rivendicando il peso della storia (e degli uomini) rispetto alle asettiche tecniche delineate dalla filologia tedesca, da Karl Lachmann (1793-1851) a Paul Maas (1880-1964). Per altro verso ci furono invece le aperture verso ciò che la «scienza dell’antichità» aveva escluso: gli studi classici, notò acutamente Momigliano, conobbero una «decolonizzazione», affrancandosi dal primato germanico e dalla regola per cui «per capire i Greci bisogna pensare in Greco, o alternativamente, in tedesco» (Prospettiva 1967 della storia greca, 1968). Ma «decolonizzazione» significò anche il confronto ormai ineludibile con la marginalizzazione dell’Europa nel panorama mondiale, quindi con il ruolo delle «altre culture»: e si è arrivati a guardare gli antichi come «diversi» da noi, eppure ancora decisivi alla definizione della nostra identità. Il libro delinea per assaggi la stagione degli studi nel secondo dopoguerra, in cui l’apporto della filologia in senso stretto fu meno presente: le opere di Bruno Snell, Eric Dodds, Jean-Pierre Vernant, Bruno Gentili, Nicole Loraux, risultano però di centrale importanza per chi oggi ancora si occupi di mondo antico, e greco in particolare. E su questa linea stanno anche gli sviluppi, cui pure vanno nel libro utili profili, venuti dallo studio dei papiri e dalle rivisitazioni moderne dei temi classici, soprattutto nel cinema. Ma che ne è stato della filologia come metodo? Dopo l’evoluzione sin qui ripercorsa, essa deve ora affrontare una nuova realtà, che ha iniziato a cambiare il volto di ogni gesto culturale: l’informatica, il cui influsso sulla critica testuale e sulla filologia in generale è tutt’ora oggetto di dibattito. Le immense opportunità di accesso ai dati offerte dalla Rete e dal formato elettronico di data-base, dizionari e concordanze, hanno ormai generato nuove prassi di ricerca, ma anche suscitato serie perplessità. Un filologo rigoroso come Enzo Degani (1934-2000) denunciò da subito i rischi derivanti dal ricorso a testi on-line, sprovvisti di apparati critici (Il mostro di Irvine, «Eikasmos» 3, 1992). Oggi filologia e informatica sono, di necessità, meno nemiche: e non solo perché gli strumenti, più affinati, restituiscono meglio la complessità dell’analisi filologica. È piuttosto l’idea stessa di testo, implicita nel mondo dell’informatica, a condurre verso una direzione diversa da quella nota e praticata a partire dagli antichi filologi alessandrini fino a oggi: e questa dunque diviene la nuova frontiera della filologia.