Il testo di Maria Antonietta Magrini, Con i piedi nell’acqua. Storia di una famiglia e del Padule (Carmignani Editrice, euro 12), è il tentativo ben riuscito di ricostruire una vicenda particolare di ciò che abitualmente si etichetta, ricordava non troppo tempo fa Carlo Ginzburg, come «cultura delle classi subalterne», più semplicemente: «cultura popolare», con tutte le ambiguità proprie di tale espressione.

La prefazione al libro, assai incisiva, restituisce comunque il rapporto profondo di una bambina, appunto «con i piedi nell’acqua», con un territorio, quello del Padule di Fucecchio, che viene restituito nella forma di un vero e proprio paesaggio esistenziale, con tutte quelle linee che ne fanno qualcosa di movimentato, vivo, disegnato dai volti e dai corpi, affaticati dall’impegno costante nei confronti di un ambiente «umido», difficile, aspro, incontrati lungo una strada di crescita fatta prima di tutto di salti, di arrampicamenti sugli alberi, sempre «a ridosso dell’acqua che scorre, che sorprende, che placa».

È la storia di un tessuto sociale particolare, di gente contadina, con specificità singolari che fanno di questa parte della Toscana un composto ancora e soprattutto «naturale» nel quale sono leggibili, nella loro complessità, gli interventi degli individui e dei gruppi che ne hanno parzialmente delineato i contorni.

È MERITO DELL’AUTRICE affiancare a tale «storia dell’acqua» la storia del «sangue», vale a dire quella vicenda frammentata raffigurata dai tanti episodi di vita familiare, di un contesto sociale coeso, all’interno dei quali emerge però con forza il protagonismo dell’elemento femminile, che riesce a esprimersi sia pure in quadri organizzativi decisamente e rigidamente codificati in senso patriarcale. È in ogni modo proprio attraverso la parola delle donne, quelle più prossime e che hanno attraversato la storia del Padule, trattenendone la memoria materiale costituita da tempi di vita intrecciati con le durezze delle attività produttive e riproduttive, che Magrini ripropone l’importanza di un discorso ricostruttivo chiaro, lineare, coerente, difficilmente reclutabile dagli eserciti/esercizi del pregiudizio dominante, quello che vuole la convergenza piena di tutto ciò che è possibile dire, oscillando tra il linguaggio e il silenzio, con le immagini stereotipate del proprio incessante imporre valori, modi di fare, di sentire.

Se c’è qualcosa che eccede tutto questo, che non permette cioè di semplificare troppo il rapporto tra la cultura prodotta dagli abitanti del Padule e quella a loro imposta attraverso una binarizzazione inappropriata, è l’effetto di risonanza che l’autrice realizza nel momento in cui ascolta le storie delle protagoniste di questa sorta di con-ricerca, per così dire, rivolta a individuare tra i tanti motivi che fanno appunto del Padule di Fucecchio una terra aspra e però d’incanto, nonostante tutto, quelli della fatica, sempre, del dolore e della sofferenza, che spesso l’accompagnano. Effetto di risonanza proprio di una storia di donne, da loro raccontata, nella sottolineatura del loro richiamarsi continuo, incessante, a testimonianza del ripresentarsi di un bisogno mai pienamente soddisfatto di riconoscimento concreto.

STORIE DI «SANGUE», quindi, anche però nel ricordo indelebile, coltivato con una energia incredibile, della strage nazista del 23 agosto del 1944, riconsegnata alla sua tragicità insuperabile, da parte dell’autrice, attraverso una fitta rete di testimonianze e documenti storici. È in definitiva proprio qui da rinvenire lo sforzo di delimitare un ambito di indagine, lo spazio del Padule, che consente di cogliere i processi storici in quella loro singolare dialettica di acquisizione di qualcosa di inaudito, mai avvertito in precedenza, e di perdita di elementi significativi, a volte anche essenziali.