Per Aldo, come per molti altri della sua e della precedente generazione, l’esperienza del carcere costituì una «seconda università». Una volta superati il trauma dell’arresto, l’oppressione dell’isolamento carcerario, l’incertezza per l’esito dell’istruttoria, il senso più acuto di angoscia per la ferita che aveva inferto ai familiari, l’esperienza del carcere avrebbe costituito non già una condizione umiliante e degradante, bensì un’occasione di crescita personale e umana. Da questo punto di vista, le lettere pubblicate in questo volume costituiscono una testimonianza politica e morale emblematica di quella generazione di giovani formatasi nella seconda metà degli anni ’30, per i quali l’antifascismo e l’incontro con il comunismo avrebbero costituito una scelta che li avrebbe accompagnati nel loro intero percorso di vita.

L’ESPERIENZA determinante in tal senso fu per Aldo e i suoi amici e compagni la partecipazione al collettivo comunista del carcere di Civitavecchia, la condivisione del costume e delle regole di comportamento legate alla disciplina, alla pratica dell’uguaglianza, alla solidarietà e all’elevazione culturale collettiva, che le autorità cercavano senza successo di stroncare alle radici, al fine di annullare la coesione politica e morale e la personalità stessa dei detenuti. Ma non meno importante fu il contatto diretto con gli operai, i mezzadri, i braccianti comunisti delle più diverse parti d’Italia, che costituivano la grande maggioranza dei condannati politici, non come categoria astratta, ma come esperienza umana vissuta quotidianamente. Si rifletteva qui quella rottura delle precedenti barriere di ceto e classe che avevano separato i giovani della borghesia colta dalle classi lavoratrici, che sarebbe stata tipica delle carceri e del confino, e, ancor più, dell’esperienza della Resistenza.

Per Aldo, che non aveva mai conosciuto un operaio prima di andare in carcere, fu la scoperta di una «nuova umanità»: «Il carcere – ha ricordato – fu per me una esperienza decisiva. L’incontro con tanti operai e contadini mi permise di conoscerli davvero. Conobbi il loro coraggio nell’opporsi al fascismo ma soprattutto da loro appresi il significato della solidarietà. Non fu solo perché eravamo giovani che potemmo superare quegli anni «di ferro» senza piegarci. Fu soprattutto perché vivevamo tra uomini riconosciuti tra nostri uguali e perché avevamo appreso ad imparare anche dagli analfabeti che, spesso, subivano pene ancora più severe. Ci sentivamo uniti nel voler trasformare quella società e inaugurare un’epoca senza più guerre. La vita in carcere, e principalmente il ‘collettivo’ che si era formato, fu la cellula in cui si generò per me la trasformazione dell’uomo. Ripensando a quegli anni posso dire che fu quello il momento in cui diventai comunista».

Tutto ciò avrebbe aperto la strada ad una più matura consapevolezza e a un senso di appartenenza a una comunità più vasta che, attraverso una «resa dei conti» con le tragedie del fascismo e della guerra, potesse aprire la strada a un mondo profondamente rinnovato e a nuovi e più liberi rapporti tra gli uomini (sembra qui trasparire, pur con le dovute distinzioni, una assonanza e una prima anticipazione dello spirito che avrebbe animato le lettere dei condannati a morte della Resistenza).

Ma vi è un altro aspetto rilevante, e per molti aspetti originale, su cui non è inutile soffermarsi. La documentazione pubblicata in questo volume non solo riflette un processo personale di crescita politica, intellettuale e morale tipico di quella generazione dell’antifascismo, ma si allarga, attraverso l’intero carteggio intercorso con i familiari, alla storia di una intera famiglia antifascista. Le lettere inviate dal carcere interagiscono, infatti, con le corrispondenze di molti altri protagonisti: i genitori Adolfo e Amelia, il fratello Ugo, la fidanzata Mirella, la sorella Elsa e il marito Francesco, fino ai nipoti Giuliana, Clelia ed Enzo.

Aldo Natoli e Enzo Collotti a Grammichele, 1935

È QUI POSSIBILE RIVIVERE, giorno dopo giorno, l’impatto violento di questa vicenda carceraria sulla cerchia dei familiari più stretti, che nel rapporto umano, nella cura e nel sostegno materiale e morale nei confronti del giovane recluso nel carcere fascista, diventano ciascuno con la sua personalità, soggetti determinanti della storia che qui viene ricostruita. Ognuno di loro vive in prima persona con dignità e con sempre più intenso spirito di condivisione le fasi dell’arresto, del processo e della condanna, si adopera oltre ogni limite per alleviare la durezza delle condizioni carcerarie, la presenza assidua ai colloqui, l’acquisto dei libri, la confezione di maglioni e di guanti, l’invio dei pacchi (sempre più indispensabili) di generi alimentari e di medicine, si scontra continuamente con il carattere repressivo e liberticida della dittatura fascista, con le mille limitazioni della censura e dei regolamenti carcerari, con la sorveglianza ottusa e la durata irrisoria delle visite, con le condizioni sempre più pesanti della vita quotidiana del carcere (la fame, il freddo, le cimici, le punizioni e le celle di rigore), l’insicurezza permanente sulla sorte dei detenuti all’interno di una istituzione totale che nulla lascia trapelare di quanto accade al proprio interno e limita drasticamente le possibilità di comunicazione con il mondo esterno. Si tratta di una temperie psicologica anzitutto personale e familiare, ma, a mano a mano che il carteggio si dipana, sullo sfondo della vita quotidiana dell’Italia in guerra, essa assume una connotazione morale e anche sotterraneamente politica. In questo senso il carteggio, considerato nel suo insieme, si allarga, passo dopo passo, alla storia corale di una famiglia antifascista nella crisi finale del regime.

I rapporti interpersonali che si instaurano appaiono molto differenziati, da parte di Aldo, in riferimento a ciascun interlocutore: intenso e carico di affetto quello con il padre Adolfo, costantemente rivolto a ricostruire il filo spezzato tra la vicenda carceraria e l’insegnamento morale e culturale ricevuto, il che non mancherà di essere ricambiato; più tradizionale, anche se in termini rovesciati, quello con la madre Amelia, improntato ad un’azione incessante di conforto e di rassicurazione, anche a costo di lasciare in ombra i risvolti più duri della reclusione; pienamente consonante nella condivisione di una pluralità di interessi letterari, storici, filosofici e musicali, nonché della fascinazione verso la natura, ma anche nel senso più profondo della «scelta» e dell’esperienza del carcere quello con il fratello Ugo, e questo in riferimento anche all’affidamento per la cura dei genitori e della famiglia e all’attenzione costante nei confronti della soggettività e della sostenibilità del carico assunto da Mirella; fraterno, ma anche segnato da una certa vena di paternalismo, quello nei confronti della sorella Elsa; attento e dialogante quello con i ragazzi, sorprendentemente capaci di rievocare, con la parola e anche con le immagini, frammenti della vita che continua a svolgersi al di là delle sbarre e di mantenere vivo un colloquio da pari a pari.

Aldo, Laura e Giuseppe Lombardo Radice sulle colline di Messina, 1938

IL RAPPORTO più complesso, e anche più ricco di risvolti emotivi non poteva che essere quello tra Aldo e Mirella. Si è qui in presenza di uno scambio affettivo e umano che, attraverso la condivisione e anche la sofferenza, si arricchirà e si rafforzerà per tutto il periodo della detenzione. Sarebbe stato per entrambi un passaggio essenziale per il futuro percorso di vita, ma sono qui anche evidenti due diverse sensibilità e modalità di percezione soggettiva e di elaborazione di questa così coinvolgente esperienza.

Le lettere di Aldo, nel loro insieme, trasmettono e vogliono trasmettere un costante senso di serenità, che è anche l’aspetto che più impressiona Mirella e Ugo nei colloqui che avvengono in carcere. Si direbbe che, soprattutto all’inizio, egli cerchi di ispirarsi a un modello «goethiano» di superiore controllo delle emozioni e delle passioni, che accentua un certo suo riserbo personale (e anche maschile) ad esternare i sentimenti più intimi, e che si proietta sull’esperienza reale di crescita umana, politica e intellettuale che sta vivendo. Solo di fronte all’espresso bisogno di Mirella di superare uno scambio asimmetrico sul piano dell’espressione dei sentimenti, anche condizionato da ricorrenti tendenze «pedagogiche», Aldo riconoscerà di non avere più nulla da insegnare, ma anzi molto da imparare da lei.

Per Mirella l’arresto e la condanna di Aldo costituiranno un trauma venuto a cadere in un percorso rivolto a un nuovo e più ricco equilibrio interiore ma ella si dimostrerà capace di fare fronte con non comune coraggio, energia, autonomia e creatività, insieme a dignità, fierezza al carico enorme di responsabilità di cui è stata investita, insieme a Ugo, non solo nei confronti di Aldo, ma anche dei suoi familiari. Ma al tempo stesso, ella vivrà integralmente con «cuore di donna» questa esperienza, trasgredendo il più delle volte gli ammonimenti di Aldo: per lei, che non rinuncia affatto alle letture e anzi fornisce preziose indicazioni su importanti novità del mondo editoriale (sarà suo il suggerimento riguardo a Conversazioni in Sicilia di Vittorini), l’illimitata disponibilità nel «dare» e nel «fare» non costituisce mai un sacrificio di se stessa, bensì l’espressione più intima e più autentica della sua personalità, e così anche la libera manifestazione dei suoi sentimenti.

Aldo e Glauco sul balcone di casa Braunschweigh a Strasburgo 1939

IN QUESTA CORNICE, la «scelta» di Aldo e l’esperienza del carcere, verranno vissute da Mirella non già come una deviazione o una parentesi forzata, bensì come un passaggio essenziale di arricchimento e di condivisione che avrebbero reso più salda e consapevole la loro unione futura, pur nella percezione che quella vicenda segnava per loro la «fine della giovinezza», ma anche nella orgogliosa rivendicazione della propria rafforzata identità.

Sarà questo il percorso e il pensiero comune di tanti giovani di quella generazione, ed è qui il punto di congiunzione tra la «grande storia» e la microstoria di questa famiglia antifascista che in questa sede si è inteso ricostruire.

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Scrivere in cella (un estratto da una lettera del 1942)

Circa la mia vita di ogni giorno io ho ben poco da aggiungere: essa scorre come una corrente diritta ed uguale, ma solo nella superficie monotona: in uno di quei bilanci spirituali di cui dicevo nella mia ultima lettera, sono andato alla ricerca di ciò che continuamente tale corrente lascia sedimentare nel profondo. Ho trovato l’humus arricchito, come in un bosco impenetrabile dove solo la vita vegetale lavora silenziosamente a preparare la fabbrica delle più preziose strutture chimiche; di quelle strutture che un raggio di sole basta a far vivere. Senza immodestia – in questi due anni – mi sembra di essere diventato tanto tanto migliore di prima, non solo come più capace di lavorare, ma addirittura di vivere umanamente.

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Il libro. Gli «inediti» da Regina Coeli e dalla casa penale di Civitavecchia

Il volume ha al centro le lettere inviate da Aldo Natoli ai familiari dal carcere di Regina Coeli di Roma e poi dalla casa penale di Civitavecchia tra la fine del 1939 alla fine del 1942 e rimaste fino ad oggi inedite.
Aldo Natoli fu arrestato alla fine di dicembre 1939 all’età di 26 anni, insieme a Lucio Lombardo Radice e a Pietro Amendola, per avere partecipato, in contatto con un altro nucleo di Avezzano, all’organizzazione del Gruppo comunista romano e quindi fu processato e condannato dal Tribunale Speciale a 5 anni di reclusione (di cui due condonati). L’esperienza del carcere sarà determinate per la sua formazione politica e per la sua «scelta di vita» che lo porterà a partecipare alla Resistenza, all’abbandono di una brillante carriera medica e all’adesione al Pci, di cui sarà nel dopoguerra capogruppo al Consiglio comunale di Roma dal 1952 al 1966, segretario della Federazione romana e laziale e deputato al Parlamento per 5 legislature, prima di essere radiato dal partito nel 1969 in quanto cofondatore del Manifesto.
Le lettere documentano un percorso comune a un’intera generazione di giovani intellettuali cresciuti nell’Italia degli anni ‘30. Dopo la Liberazione questa generazione, formatasi attraverso l’antifascismo e la Resistenza, sarà tra i principali soggetti del «partito nuovo» di Togliatti e della costruzione della democrazia italiana nel primo trentennio della Repubblica.
Un altro aspetto molto rilevante e originale del volume è costituito dal fatto, davvero raro, che esso può avvalersi dell’intero carteggio intercorso tra il giovane recluso nel carcere fascista e i familiari, che nel rapporto umano, nella condivisione e nel sostegno materiale al prigioniero diventano, ciascuno con la sua personalità ( declinata anche al femminile) soggetti determinanti della storia che qui viene ricostruita.
Accanto alla trascrizione filologica delle lettere, il volume è arricchito da un saggio storico di Claudio Natoli, da una memoria autobiografica di Aldo Natoli sul carcere di Civitavecchia e da una testimonianza di Enzo Collotti, che, appena adolescente, fu anch’egli testimone e protagonista.
(Aldo Natoli, Lettere dal carcere 1939-1942. Una storia corale di una famiglia antifascista, a cura di Claudio Natoli con la collaborazione di Enzo Collotti, Viella, pp. 357, euro 39).