Due presunti sequestri di cittadini israeliani – l’ebreo etiope Avera Menghisto, 28 anni, e un beduino del Neghev del quale non è nota l’identità -, potenzialmente in grado di innescare un nuovo conflitto a Gaza, sembrano avere più danneggiato che aiutato la campagna anti-Hamas di Benyamin Netanyahu. Il premier e il suo governo sono finiti sotto accusa per i due israeliani dispersi da mesi a Gaza. Una vicenda resa nota solo a metà settimana dopo le rivelazioni fatte dal leader del movimento islamico, Khaled Mashaal. In un’intervista, Meshaal ha parlato di trattative in corso per la restituzione a Israele dei resti di due soldati caduti in combattimento un anno fa durante l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza, e ha poi fatto riferimento al caso dei due scomparsi, costringendo le autorità militari israeliane a revocare la censura imposta per mesi. Netanyahu, dopo la rivelazione, ha subito lanciato pesanti avvertimenti ad Hamas e il suo governo è stato rapido ad escludere, in modo categorico, la possibilità di uno “scambio di prigionieri”, sul modello di quello avvenuto quattro anni fa che portò alla scarcerazione di un migliaio di detenuti politici palestinesi in cambio della liberazione del caporale Ghilad Shalit, prigioniero a Gaza dal 2006. Il primo ministro non ha però calcolato l’indignazione della famiglia di Avera Menghistu per come è stata gestita la faccenda sino ad oggi e quella degli ebrei etiopi (noti come falasha) da mesi impegnati in proteste e manifestazioni contro le discriminazioni che subiscono.

 

È emerso grazie a una tv locale un tentativo di intimidazione, al limite della minaccia, da parte di Lior Lotan, un emissario di Netanyahu, nei confronti dei congiunti di Menghisto, diffidati dal criticare in pubblico il primo ministro che non ha risposto a otto lettere inviate dalla famiglia del disperso. Lotan avrebbe avvertito i genitori che ogni passo volto a creare un legame tra la vicenda di Avera e la protesta dei falasha finirebbe per complicare tutto. Sotto pressione Netanyahu è stato costretto ad intervenire per condannare Lotan e venerdì si è recato dai Menghisto ad Ashkelon per affermare che gli sta a cuore la sorte di Avera, entrato volontariamente a Gaza lo scorso settembre. Questo tardivo gesto di solidarietà non ha placato il malumore che regna negli slum desolati abitati dagli ebrei etiopi che nel caso di Menghisto scorgono un altro esempio di discriminazione e di atteggiamento diverso del governo rispetto alle origini dei cittadini del Paese. Su Yediot Ahronot un giornalista di origine etiope ha sollecitato l’intera società israeliana a mobilitarsi per Avera. In caso contrario, ha ammonito, la protesta falasha si farà violenta. Il caso Mengisto, denunciano gli ebrei etiopi, è stato preso ”sotto gamba” dal governo perchè, affermano, non si tratta di un ebreo ashkenazita, ossia di origine europea. Non pochi ricordando il caso di un altro ebreo etiope, Gabriel Tawit, un soldato riservista dato per disperso nel 2005. La famiglia è stata aggiornata solo due anni dopo dalle autorità sul fatto che era annegato e che i suoi resti erano stati restituiti dagli Hezbollah libanesi. Nessuno aveva pensato di aggiornare i familiari. Non si respira un clima diverso nel villaggio del Neghev dove vive la famiglia del beduino disperso a Gaza. Anche in questo caso sono forti le recriminazioni per l’atteggiamento avuto in questi mesi da Netanyahu. E se il premier ha scelto di andare a visitare i genitori di Menghisto, non ha pensato di fare altrettanto con la famiglia del beduino, di cui non si sa nulla se non che già in passato è entrato illegalmente nella Striscia, come in Egitto e in Giordania.

 

Entrambi gli scomparsi soffrirebbero di “disabilità mentali” dicono i media israeliani. Tuttavia questa generica descrizione del loro malessere maschera la realtà sociale in cui si sono sviluppate le “malattie”. Due anni fa Avera Mengisto era rimasto sconvolto dal suicidio del fratello. Nella zona di Ashkelon, dove vive, ci sono stati nove suicidi negli ultimi anni, a causa del degrado sociale e la sfiducia in un vita finalmente migliore. I suoi amici raccontano che il giovane voleva tornare in Etiopia. Hamas da parte sua nega che si trovi ancora a Gaza, e sostiene che il giovane ebreo etiope ha lasciato la Striscia attraverso un tunnel sotterraneo con l’Egitto proprio allo scopo di raggiungere la sua terra d’origine. Per Israele invece Menghisto è trattenuto contro la sua volontà dal movimento islamico, intenzionato ad usarlo, prima o poi, per uno scambio di prigionieri. Di sicuro si sa soltanto che l’8 settembre scorso Avera, pare in stato di ebbrezza, ha cominciato a camminare lungo la costa di Ashkelon e si è diretto verso Gaza. Ha raggiunto la spiaggia di Ziqim e, infine, è arrivato davanti alle barriere di separazione. Sulle telecamere di sorveglianza dell’esercito quel giorno è apparsa la figura di un uomo nei pressi del reticolato, con una valigia, e i soldati hanno pensato a un palestinese intenzionato a rientrare nella Striscia. Quindi si sono mossi con ritardo per fermerlo. Poco dopo è stato intercettato dalle forze di sicurezza di Hamas e interrogato. «Non si trattava di un soldato, perciò è stato rilasciato quasi subito», ha comunciato un portavoce di Hamas. Israele non ci crede e qualcuno non esclude che Menghisto possa essere morto.

 

Storie di discriminazione raccontano anche i beduini del Neghev. Ora devono fare i conti con il Prawer Plan, il progetto portato avanti dal governo per lo sgombero di villaggi e campi “non riconosciuti” e il trasferimento di decine di migliaia di beduini in township vecchie e nuove. Le aree “risanate” saranno occupate da nuove città ed infrastrutture, ma non per i beduini. Pochi credono, nonostante gli avvertimenti e le dichiarazioni bellicose di Netanyahu, che l’ebreo etiope Menghisto e il beduino del Neghev, finiranno per spingere il governo isareliano a lanciare un nuovo attacco contro Gaza e Hamas.