Fin quasi alla fine c’è stata Mina, la cantante somma, a dare un po’ di tregua alle sofferenze – del corpo e dell’anima – di Gianni Romano, morto alla vigilia di Natale, poco oltre gli ottant’anni, ormai un traguardo consueto e dai più doppiato. Il suo vertiginoso sapere, la sua generosità, materiale e intellettuale, il suo occhio eccellente, l’inesausta ricerca metodologica non lo avevano messo al centro della scena culturale come, per queste doti, sarebbe dovuto stabilmente stare. La storia dell’arte italiana, ma idem dicasi per quella internazionale, non riuscivano – e non riescono – a riconoscersi in un modello come Romano, che ha smascherato, con il lavoro e senza proclami, le falsità e gli inciampi di una disciplina precipitosamente mediatica. La marginalità della sua posizione sulla scena internazionale non ha l’attenuante, si fa per dire, dell’intraducibilità della lingua per eccesso di espressionismo espressivo, quello insomma che ha limitato non la grandezza, ma la fama, di Gadda, Contini o Longhi o persino Pasolini (film esclusi). E non è nemmeno da evocare la monumentalità delle strutture di Ballarin. La lingua di Gianni è pesata e controllata, costantemente pertinente, anche nella comunicazione epistolare (è stato un grande scrittore di lettere, persino con la posta elettronica); i suoi aggettivi hanno uno spessore tridimensionale, i suoi giri di frase rifuggono l’«elegante», i «riscontri morelliani», il «non c’è bisogno di dimostrare» delle fauci aperte delle perizie su carta intestata… Per quanto traducibile, Romano è un autore in sostanza non tradotto e non letto e soprattutto non capito nel paesaggio internazionale della storia dell’arte di oggi, in costante fuga dalla messa in luce della qualità poetica degli oggetti e invece all’affannosa ricerca, da un lato, di dati apparentemente oggettivi (vuoi archivistici, vuoi materiali), dall’altro, di fumose elucubrazioni, spesso solo parafilosofiche, dove le grandi riflessioni francesi di fine Novecento sono riorchestrate in lingua anglosassone, tra i generi e i corpi (quelli accademici naturalmente, non quelli fatti di cuore e di sangue e di muscoli).
Da un po’ di tempo Gianni non riusciva più a scrivere, lui che aveva scritto montagne di pagine utili, lungo uno spettro che dall’alto Medioevo raggiungeva il mondo di oggi, fiancheggiando – classe 1939 – il lavoro dei coetanei Saroni, Devalle, Paolini… In quel gioco inesausto tra passato e presente – il ping pong che ha permesso di giocare alcune delle partite migliori del XX secolo – non era infatti passata invano la lezione di Francesco Arcangeli, nella Bologna degli anni sessanta, dove lui era andato a perfezionarsi (e dove avrebbe insegnato alla festa mobile del DAMS). Le angosce esistenziali di quel maestro erano state provvisoriamente messe a tacere ricorrendo a strumenti all’apparenza più scientifici, dall’antropologia alla psicoanalisi. Aveva contato di meno invece l’azionista Aldo Bertini, il professore con cui si era laureato, a Torino, nel 1963-’64, con una tesi su Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo, uno dei pittori della Controriforma nell’Italia del Nord, un tema che a Gianni è stato caro fino alla fine. E su cui si rifrangevano, fin d’allora, le ombre del saggio su Bartolomeo Cesi di Alberto Graziani, l’allievo prediletto di Longhi, morto a ventisette anni. Prima, prima della tesi, ma dopo l’asilo dalle suore a Carmagnola, aveva già visto a Vercelli la mostra di Gaudenzio Ferrari, uno degli amori della sua vita, e a Milano l’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, quella vera, non la parodia montata qualche anno fa. Aveva già imparato a memoria, fin da ragazzo, dei tocchi del saggio su Martino Spanzotti di Giovanni Testori, «scoprendo che cosa significa l’aderenza critica alla poesia di un grande maestro». Aveva già scritto, prima di essere laureato e senza firmarla, una nota sui quadri di Paolo Finoglio con le storie della Gerusalemme liberata. Fin da lì, con le tele di Conversano, aveva chiara l’esistenza di quella «questione meridionale», che Giovanni Previtali avrebbe incuneato nel corpo della storia dell’arte italiana; fin da lì, aveva maturato la passione per i rapporti tra le arti e le lettere.
La memoria di Gianni è stata a lungo impressionante: e ingenerava talvolta nell’ascoltatore un senso di frustrazione; potevano essere nomi di papi, trafile di committenti, sequenze di passaggi collezionistici o, indifferentemente, formazioni di squadre di calcio in cui aveva giocato qualche atleta prediletto, come fu il fantasista Alessandro Del Piero, delle cui gambe l’ho sentito a lungo parlare. La prima volta che è entrato in casa mia ha recitato un pezzo dell’Année dernière à Marienbad: «des couloirs, des couloirs…»; gli accostamenti più imprevedibili erano il suo forte.
Dionisotti «con» Longhi
L’autunno dell’idealismo di Bertini non ha molto agito sulla formazione del pensiero inquieto di Gianni, ma non andrà scordato che Bertini era il cognato di Carlo Dionisotti, il sommo italianista, dalle forti tensioni civili. Mentre la biografia di Dionisotti lo vede intrinsecamente legato al mondo di Lionello Venturi, Argan in testa, Romano compie un’operazione critica – di indiscutibile rilevanza – inserendone la lezione su un altro campo di studi, quello che aveva in Roberto Longhi il suo campione. Dionisotti diventa così un nodo ineludibile per affrontare la storia del Cinquecento da parte degli storici dell’arte. È solo una delle tante capriole che Gianni è riuscito a compiere, fuori dai dogmatismi e dai precetti ideologici e disciplinari, ma avendo sempre chiare le regole dell’onestà intellettuale. Quella che in molti non gli hanno voluto riconoscere, al tempo dei linciaggi e delle aggressioni, perché ci sono stati anche questi. E, da parte sua, mai un lamento, mai una spiegazione di troppo, lungo il filo di un riserbo sigillato ermeticamente dentro di sé, che sarebbe troppo banale definire sabaudo. Forse bastava quell’«a mia madre», che sta in testa al primo libro di Gianni, Il coro di San Lorenzo, che la Famija Albeisa pubblicava nel 1969. Altro che Bernardino da Codogno, l’autore degli stalli del coro in San Lorenzo ad Alba; lì si rigiudicava l’intero Rinascimento italiano, facendo leva su una testimonianza figurativa provinciale, ma realizzata a tarsie, come quelle a cui Arcangeli aveva dedicato il suo primo vero saggio nel 1942. E infatti l’attacco, memorabile, è: «Quando Brunelleschi portò a termine la sua prima veduta prospettica…». L’anno dopo, il 1970, i Casalesi del Cinquecento, nei «Saggi» Einaudi, cercavano il dialogo non tanto tra le fila degli storici dell’arte ma con il «libro esemplare di Carlo Ginzburg sui Beneandanti». E la dedica era «alla cara memoria di Adriano Amedei», un po’ come – se non mi sbaglio – il Fausto Ardigò in testa agli Esercizi di lettura di Gianfranco Contini.
Non c’erano protezioni in Gianni, se non quelle che trovava in sé stesso, nell’assoluta consapevolezza, che non credo l’abbia mai lasciato, del suo valore e delle sue doti di predestinato. Naturalmente di sinistra, non ha mai avuto un partito dietro le spalle: e anzi non gli sono mancati gli attacchi e le incomprensioni proprio da chi avrebbe dovuto pensarla come lui, che fossero sindaci o assessori o rettori o editori. Perché, fino agli anni del ritiro e dell’isolamento in cui è stato lasciato, Gianni era una persona pubblica, soprattutto ai tempi in cui ha militato nella Soprintendenza, dove era entrato – dopo il tirocinio, così significativo, nella casa editrice Einaudi – alla fine degli anni sessanta, passando nell’arco di quasi un ventennio da funzionario a soprintendente, per approdare definitivamente nel 1986 all’Università di Torino.
Costruire un’altra Torino
Intrinsecamente maestro, Gianni ha avuto in sostanza i primi, e più fortunati, allievi proprio nei colleghi, quasi tutti di sesso femminile, della Soprintendenza piemontese, che usciva dalla grande esperienza di Noemi Gabrielli. Ancora oggi non manca, tra i superstiti di quella straordinaria stagione, straordinaria per l’impegno etico-politico e per i risultati scientifici, in tantissimi casi, insuperati, chi ricorda con orgoglio di essere stata definita parte del «corpo di ballo di Gianni Romano», come s’ironizzava, con un gusto da caserma, sul principale quotidiano torinese. Quindi, no Carluccio, no Viale, no Accorsi, no Agnelli. C’era da costruire un’altra Torino e un altro Piemonte.
Se non ci sono stati i partiti, non c’è stata nemmeno la Fiat, per quanto non fosse mancata, ormai in anni tardi, l’offerta di una mostra da curare a Palazzo Grassi, il cui soggetto – Gianni non aveva paura di stupire – non era il prediletto Cinquecento ma l’Ottocento italiano, mentre le richieste di donna Marella non superavano un orizzonte inguaribilmente privato. E, d’altronde, di carattere prettamente ottocentesco era stato L’attenzione di Giovan Pietro Vieusseux e le distrazioni di Julien Sorel, il secondo degli Studi sul paesaggio e forse il suo capolavoro.
All’indomani del passaggio di Einaudi nelle mani di Berlusconi, Gianni ha cercato altrove uno sbocco del proprio lavoro di scrittore, sempre condotto, fin dagli esordi, in una capace alternanza tra grande editoria e sedi defilate, se non addirittura marginali. Da qui l’approdo, con il suo ultimo libro, ed era consapevole che sarebbe stato tale, alla Feltrinelli: Rinascimento in Lombardia. Foppa, Zenale, Leonardo, Bramantino, comparso nel 2011. Insieme all’amatissimo Piemonte, la Lombardia era stata, dalla Valtellina alla Bassa, uno dei suoi scenari privilegiati, con scoperte a non finire, tra lambrette e treni locali (su cui aveva divorato i grandi romanzi francesi). La sua esplorazione territoriale, capillare, è stata infatti compiuta così: non sapeva guidare l’automobile. Non a caso l’ultimo suo scritto, densissimo e frutto di fatiche inenarrabili, è Il Santo Sepolcro nel cuore di Milano, la premessa al volume che dava conto dei lavori di restauro compiuti in quella chiesa da Pinin Brambilla, la «divina», come la chiamava lui, anche lei andata di là pochi giorni fa. In tre pagine si addensa un’infilata di predilezioni, precisazioni, attribuzioni, con persino un ricordo del Paradiso, come si può vedere in San Bassiano a Lodi Vecchio «nei pomeriggi d’estate, quando la luce del sole invade senza ostacoli la navata».
A un certo punto, nella vita di Gianni, così estremamente organizzata, non è stato più possibile ripetere i riti, perché il corpo non lo consentiva: e quindi niente Sardegna d’estate, niente Napoli, la Napoli di sua moglie Serena, a Natale. Ma bastavano il presepe e un pugno di amici – magari teatranti – e il golfo si rovesciava in via Madama Cristina. Ma Serena non è stata solo Napoli e nemmeno solo la dedicataria, insieme a suo figlio Nicola, del meraviglioso saggio per la Storia dell’arte italiana di Einaudi. Alle sue competenze di psicologa si devono alcuni détours nell’introduzione al volume sulle migrazioni dei simboli di Rudolf Wittkower. Ma alla fine conta soprattutto la sua eroica vicinanza in un tratto d’esistenza che ha avuto movenze da Calvario.
Oltre alla Francia, percorsa capillarmente nelle sue varianti figurative regionali, come è abbastanza prevedibile per un piemontese, non c’era più, da tempo, in Gianni il gusto per i viaggi all’estero. Gli capitava però di riandare spesso alla Londra in cui aveva soggiornato a lungo nel 1970: lì non c’erano state solo le scorribande alla Witt Library, sui cui cartoni della fototeca restano tracce significative di quel passaggio. C’era stata la visione del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare messo in scena da Peter Brook con i trapezi e le altalene, uno dei vertici espressivi del Novecento a cui aveva avuto la fortuna di assistere. Che quel bosco incantato possa risorgere, sulle rive del Po, nel parco del Valentino, dove – oltre l’arco – il sommo Cavalcaselle aveva rischiato la vita. Quando sarà la volta, spero di rincontrare Gianni lì, mentre guarda tra gli alberi, di notte, Robert de Saint Loup, Lucien de Rubempré e il prediletto Julien Sorel. E magari ci sarà la regina delle fate a cantare Ragazzo triste.