«Una volta ho sognato di essere una farfalla (…) ero consapevole soltanto della mia felicità di farfalla, ignaro di essere me. Presto mi svegliai ed ero di nuovo io. Ora non so se allora ero un uomo che sognava di essere una farfalla, o se adesso sono una farfalla che sogna di essere un uomo», così Zhuangzi (369- 286 a.C. ca.) riassume il vecchio dilemma taoista sull’illusione della vita, e con questo aforisma sembra racchiudere l’essenza di una civiltà antichissima, illuminata, visionaria e complessa come quella cinese. Il volume La Cina Una storia per oggetti di Jessica Harrison-Hall (Einaudi, «Saggi», pp. 351, euro 42,00, traduzione di Chiara Veltri) si professa come un’introduzione alla storia del Regno di mezzo, dal neolitico (8500 -1700 a.C. ca.) fino ai giorni nostri.
Partendo proprio dai reperti archeologici e artistici della collezione del British Museum la Harrison-Hall racconta settemila anni di civiltà cinese restituendole vita e splendore. Il risultato è un libro molto curato nella sua forma tipografica, con magnifiche fotografie e una struttura lineare. L’approccio è di natura storico-artistica, ciascuna pagina è dedicata a un particolare tema, quasi schede esplicative. Se non conoscessimo l’entità del patrimonio d’arte asiatica dell’insigne museo londinese potremmo pensare si tratti del catalogo generale della sua straordinaria collezione. Non è certamente un caso che il volume sia stato pubblicato nel 2017 in concomitanza con l’inaugurazione dell’apertura della nuova galleria di arte asiatica del British Museum, il cui nome richiama quello del suo finanziatore Sir Joseph Hotung. Infatti la configurazione del libro ricalca perfettamente il nuovo allestimento museale.
L’intento della Hall sembrerebbe quello di volersi discostare dai tanti altri manuali nei quali la Cina è dipinta come un unico stato omogeneo, negando sin dal principio la possibilità di racchiudere l’intera cultura cinese in un unico libro o in una sola mostra. Il volume è suddiviso in sei periodi storici: La Cina antica (5000-221 a.C.), Imperi (221 a.C.-960 d.C.), Imperatori, eruditi e mercanti (960-1279), Mongoli e Ming (1271-1644), l’ultima dinastia dei Qing (1644-1911), fino ad arrivare alla Cina moderna (1911-oggi). Attraverso manufatti provenienti da ogni regione del paese (peccato la totale assenza di una mappa) – ceramiche, giade, bronzi, dipinti, tessuti e calligrafie – vengono studiati i cambiamenti culturali e rituali, concentrandosi particolarmente sui materiali e sulle diverse tecniche di lavorazione.
La Harrison-Hall è a capo del dipartimento cinese del British Museum e ricopre il ruolo di curatrice della Sir Percival David Collection di ceramiche e delle collezioni della Cina tardo-antica e del Vietnam. Il suo notevole curriculum annovera mostre come China: Journey to the East (2009-2012) e Passion for Porcelain al National Museum of China (2012). Ha curato la prima galleria digitale e interattiva di ceramiche cinesi nel 2009 ed è Presidente della Oriental Ceramic Society dal 2015. Insomma, il suo interesse per la porcellana in tutte le sfaccettature è evidente. Tanto che, malgrado le ceramiche di Yue, Ru, Jun, Ding, Jingdezhen siano magnifici modelli di elevata qualità tecnica, si sente un po’ la mancanza della pittura, della scultura e dell’architettura di origini religiose. Infatti, seppure trattate all’interno del libro, non vengono mai approfondite a dovere, dove lo spazio maggiore è di gran lunga dedicato all’arte della ceramica.
Un raro e straordinario esempio di statue buddhiste in terracotta invetriata sancai («tre colori») sono i luohan, ritrovati nel 1912 nelle grotte dello Yixian (Hebei). Queste dieci riproduzioni a grandezza naturale dei discepoli di Siddhartha Gautama sono state realizzate verso la fine della dinastia Jin (1200-34 ca.). I loro volti, la loro pelle e le loro mani sono talmente realistici che fanno quasi pensare si tratti di autentici ritratti di monaci dell’epoca.
Il magnifico repertorio iconografico raccolto dalla Hall ci svela una Cina ricca di contraddizioni e allo stesso tempo culla degli scambi interculturali e religiosi tra le diverse popolazioni che la governarono nei secoli. Molte delle famiglie imperiali che regnarono sulla Cina erano di etnie diverse da quella Han: la dinastia Liao (907-1125) era di origine Kitai (Mongolia interna), la dinastia Yuan (1271-1368) è stata fondata da Qubilai Khan (nipote di Gengis Khan) e i Qing, ultimi imperatori, erano Manciù. Tutte, a modo loro, hanno partecipato alla costruzione dell’identità culturale del Celeste Impero. Inoltre, bisogna ricordare che la Cina è stata la patria dei cosiddetti gigli d’oro. Durante le epoche Song, Ming e Qing, per una questione estetica, i piedi delle bambine venivano deformati obbligandole a indossare scarpette di pochi centimetri. Questa moda portava le donne ad avere un’andatura fluttuante e fragile che ricordava il loto piegato dal vento. Esse non potevano correre ed erano così prigioniere del loro stesso corpo.
La Cina, però, è anche la terra di Fu Hao, regina di dinastia Shang (1600-1046 a.C.), donna straordinaria, allo stesso tempo: sposa, madre, capo militare, politica e sciamana. Nella sua tomba furono ritrovate oltre mille armi (rarissimo per una donna), 368 bronzi, 750 giade, 560 manufatti d’osso e avorio e oltre 110 sculture. Sei cani e sedici schiavi furono sacrificati in suo onore e posti attorno alla sua bara per accompagnarla nell’aldilà. Una delle prime testimonianze della devozione che i cinesi prestavano al passato e agli antenati si ritrova proprio nei bronzi di epoca Shang, come i contenitori per le offerte di cibo e vino decorati da taotie: maschere dagli occhi prominenti e corna arcuate di cui la Hall ci illustra vari esempi. A quest’epoca risalgono anche i pittogrammi intagliati su ossa oracolari, tra i primi esempi di scrittura cinese. Queste iscrizioni venivano incise durante la pratica divinatoria della scapulomanzia, nel corso della quale si sacrificavano animali e si esponevano al calore le loro ossa o i loro gusci con lo scopo di far decodificare agli indovini le incrinature prodotte dal fuoco.
L’ultima parte del libro, quella che riguarda la Cina contemporanea dalla caduta dell’Impero Qing al giorno d’oggi, è stata trattata in modo alquanto sbrigativo e, rispetto agli altri capitoli, nasconde alcune lacune. Infatti, in questo caso, il racconto attraverso oggetti provenienti dalla collezione del British Museum presenta un limite: non permette una visione esaustiva della storia dell’arte cinese dell’ultimo secolo. Il metodo utilizzato dalla Hall, basato sul narrare la storia attraverso la cultura materiale propria di una collezione museale, non è di sua invenzione. Ha origine nel 2010 grazie alla celeberrima trasmissione radio in cento puntate A History of the World in 100 Objects (di cui venne in seguito pubblicato il libro e nel 2016 inaugurata una mostra itinerante). La serie fu scritta e presentata da Neil MacGregor, l’allora direttore del British, in congiunzione con la BBC Radio 4. Per questo progetto il museo vinse l’Art Fund Prize nel 2011 e venne definito da The Guardian un «fenomeno di comunicazione di massa» con ben 4 milioni di ascoltatori. Il libro della Hall sembrerebbe proseguire sul filone di questa nuova corrente divulgativa e letteraria timbrata dal British Museum, dimostrando così la necessità, tipicamente anglosassone, di trasferire saperi specialistici a un pubblico sempre più vasto.