Se le gambe sexy di Laura Antonelli sulla scaletta di Malizia, soft-erotico del ’73 di Salvatore Samperi, son diventate l’icona più tornita del voyeurismo cinematografico, il merito va anche a quel mago della luce e dell’inquadratura che è Vittorio Storaro. Maestro tra i maestri dell’immagine, ‘alter occhio’ dei grandi del grande schermo, Storaro, da quando ha cominciato (nel ’62, con I Normanni di Giuseppe Vari), non ha mai smesso di dividersi tra cinema d’autore e cinema commerciale o di genere : da La strategia del ragno, L’uccello dalle piume di cristallo, Tucker, Dick Tracy (nell’ampia selezione, fitta di altri Bertolucci, Coppola, Warren Beatty, che la Cinémathèque Française de Paris ha snocciolato in suo omaggio il mese scorso) a film del dimenticato Luigi Bazzoni, come il singolare Le Orme (1975), proposto con masterclass all’Institut Culturel Italien, prima dei festeggiamenti all’Ambasciata Italiana. Chissà se al Bif&st di Bari, dove sarà protagonista il 27 d’una delle lezioni di cinema più attese (insieme a quella di Bernardo Bertolucci il giorno dopo), non si arriverà a esplorare anche l’altra metà di Storaro, impegnato a dare nuova luce a titoli di maniera quali Delitto al circolo del tennis (1969) di Franco Rossetti o Blu gang, vissero per sempre felici e ammazzati (1973) dello stesso Bazzoni. Intanto, a Parigi, pulloverone grigio su girocollo nero, gli antichi capelli sessantottini divenuti una pioggia bianca attorno alla nuca nuda (il 24 giugno compirà 78 anni), il vincitore di tre Oscar per la migliore fotografia (Apocalypse Now nel ‘79, Reds nell’82, L’ultimo imperatore nell’88) non manca di rivendicare uno statuto d’autore, preferendo assegnarsi il ruolo di cinematographer (‘cinematografo’), per analogia con fotografo, invece del riduttivo ‘direttore della fotografia’ : « Sono uno che scrive : con le immagini in movimento ». Storaro, che filma come un artista, teorizza come un saggista, negli incontri in pubblico come nei numerosi libri, da Scrivere con la luce (2002) a Il segno di un destino (2005), a Caravaggio : l’ombra del genio (2014). Alla Cinémathèque, dove ha tra l’altro introdotto Il conformista del 1970 (dopo il malinconico videomessaggio di Bertoluccci, rimasto in Italia : « Oggi si restaurano i film, ma non si è ancora imparato a restaurare gli autori… »), Storaro ha incantato la platea spiegando la ‘filosofia’ delle gamme cromatiche da lui scelte per differenziare psicologie e ambienti di questo grande film con Jean-Louis Trintignant e le stupende Stefania Sandrelli e Dominique Sanda, che non a caso precederà il 27 la sua ‘lezione’ al Petruzzelli di Bari.

Com’è nata, Vittorio Storaro, la ‘tavolozza’ del film ?

Dalla luce azzurrata che traspare dalle finestre nella sequenza centrale del ballo. A Bernardo era piaciuta moltissimo : in realtà era il risultato di filtri e artifizi. Ho suggerito che divenisse la luce di Parigi, zona franca dei rifugiati politici durante il fascismo, all’opposto delle fiammate sanguigne del finale a Roma, dove il protagonista, che si è sempre professato ‘un uomo normale’, prende coscienza della sua latente omosessualità.

Quasi dieci anni dopo, Apocalypse Now e il suo primo Oscar.

Coppola aveva molto amato Il conformista e mi ha chiamato. Ho accettato perché non è un film di guerra, ma sull’idea universale delle civilizzazioni, sul rispetto tra le varie culture. È stato un film di grande coraggio : il risultato d’un talento corale, con, tra gli altri, il grande scenografo Dean Tavoularis, che ha ideato un’immagine unica, il percorso di candele lungo la via che porta al tempio. Un’idea di pura immaginazione, lontana da ogni realtà : frutto d’un’energia collettiva, che si sprigionava da Coppola. La dimostrazione migliore di quel che può essere un film che non sia al servizio della produzione, ma in cui la produzione sia al servizio del film : come dovrebbe essere sempre.

Come s’è comportato, fotograficamente, Marlon Brando ?

Da genio. Doveva uscire poco a poco dalla tenebra, prender corpo e fisionomia con spostamenti impercettibili nel taglio di luce. Una sequenza cinematografuca alla Caravaggio. Lui si è fatto plasmare puntino per puntino dalla luce, come un mosaico progressivo. Una sensibilità e maturità d’attore rara.

Ha lavorato con i maggiori registi : come l’ha ispirato ciascuno di loro?

Ho avuto grandi guide spirituali. Posso dire, con una battuta di Tucker, che ho potuto prendere il sogno di queste persone e farlo diventare mio. Il cinema è un modo di visualizzare i nostri sogni. La fortuna della mia generazione è di aver avuto un grande background culturale : arte, letteratura, musica, teatro… Ci siamo nutriti di queste arti, ogni esordio è stato un’esplosione d’entusiasmo : ci sentivamo responsabili ma sicuri. La passione dei dilettanti, che non han paura di sbagliare.

Uno per uno : Bertolucci ?

Quando l’ho incontrato nel ’64 in Prima della rivoluzione, mi ha impressionato per come sapesse scrivere con la cinepresa.

Coppola ?

Ne ammiro la libertà mentale, costante nella grande diversità di soggetti. È animato dall’idea che siamo sempre in gioco, in gara : tanto vale rischiare.

Beatty ?

M’ha insegnato com’era possibile vedere il film non da fuori, ma da dentro, dall’interno del protagonista, facendomi leggere la storia da un’altra angolazione.

Carlos Saura ?

Ha un enorme senso del ritmo. Basti vedere Tango, Goya, Flamenco, flamenco. Ama la musica, il suo senso del ritmo lo trasferisce nel ritmo delle immagini.

Woody Allen ?

In lui c’è una grande potenzialità del dialogo, dello scritto. Si sente il grande scrittore, nel ritmo, nella versatilità, anche nella capacità di cambiare tutto all’ultimo per ottenere l’emozione voluta. Quando ha saputo che avrei lavorato con lui, in Café Society, Coppola s’è congratulato: ‘Allen è il più grande regista Usa in questo momento storico’.

Com’è iniziata l’avventura-Allen, proseguita nel 2017 con Wonder Wheel e, adesso, con A Rainy Day in New York ?

La prima volta, per capire se il film era nelle mie corde, ho subito chiesto il copione. Contro il parere dei più : ‘Quando chiama Allen non si chiede il copione’. Invece, me l’ha mandato subito. L’ho raggiunto a New York, per convincerlo che il film non poteva avere una visione unica, piatta, come i suoi ultimi lavori, ma una visione dubbia, con quella piccola famiglia del Bronx in continua mutazione.

È con Café Society che è cominciato il suo viaggio nel digitale.

Sì, due anni fa, con alle spalle 58 film su pellicola, ho proposto a Woody di passare al digitale : anche lui, fino allora, aveva utilizzato solo la pellicola. Ciò che fa la differenza in un film non è la tecnica impiegata ma l’idea : la concezione figurativa di quel che è la storia. Oggi le telecamere sono così sensibili che si può registrare un’immagine ovunque, anche al buio . Ma la domanda dovrà sempre essere : è giusta per quel tipo di film, di racconto ? È l’idea, il senso d’un’immagine che fa la differenza, non la sofisticheria di turno.

Il digitale è comunque la benedizione dei cine-restauri.

Si parla molto di restauro, che porta tanti soldi dal governo, ma nessuno parla di conservazione. Quanti film sono trattati con la fotochimica a grande conservazione? Eppure, il costo è basso. Trasformazione in digitale non significa per sempre. Il supporto che registra la parte digitale non ha grande resistenza : se non si rinnova ogni 3-4 anni, il film svanisce.

I restauri digitali son dunque effimeri o a rischio ?

Pensi che Ultimo tango a Parigi – il 28 a Bari, nell’edizione restaurata e digitalizzata, in prima mondiale – ha perso almeno il 40 per cento di tonalità fredde e calde e di sfumature, che rappresentavano nel ’72 la sua eccellenza. Oggi occorre trovare il sistema di come archiviare le immagini nel digitale : non c’è nessun sistema di archiviazione. Qualità e conservazione  devono andare avanti di pari passo.

In un’antica intervista a Positif raccontava che il suo sogno era di realizzare un film senza mai ricorrere alla luce artificiale. Proprio lei, votato alla scrittura della luce?

« Son dichiarazioni che si rilasciano quando si è molto giovani. Venivo da Novecento –anch’esso in edizione integrale e restaurata al Bif&st –, 4 atti in cui volevamo rendere la simbologia della crescita dell’essere umano in relazione alle stagioni e alla storia: estate/bambini, autunno/crescita, inverno/fascismo, primavera/fine del fascismo. Variazioni che avevo cercato di render palpabili nel contrasto tra energia naturale e artificiale : nella prima parte, senza accendere una lampadina, per passare poi ai lumi a petrolio e alle luci elettriche, com’è stato in quel periodo. Non è stato sbagliato farlo, ma sarebbe stato sbagliato continuarlo. Perché il cinema non è realtà : è visione. Oggi sento come un eccesso i propositi tradizionalisti, fondamentalisti : ‘ricreare l’atmosfera’ è una menzogna. Un grande visionario sosteneva che ‘l’immaginazione è molto più importante della conoscenza’ : si chiamava Albert Einstein.

 BIF&ST 2018 DEDICATO A VITTORIO TAVIANI – IL PROGRAMMA

Sei anteprime internazionali al Teatro Petruzzelli (la prima, stasera : End of Justice – Nessuno è innocente di Dan Gilroy con Denzel Washington, Colin Farrell), un cine-concerto, il 22, con Rita Marcotulli, Peppe Servillo, Enrico Rava, in ricordo di Armando Trovajoli : alla nona edizione, il Bif&st di Felice Laudadio invade Bari di eventi, concorsi, retrospettive, cine-omaggi. In omaggio a Bertolucci, L’ultimo tango a Parigi e Novecento in copie integrali e restaurate con la supervisione di Vittorio Storaro. Alla presenza di Giuseppe Tornatore, Nuovo cinema Paradiso, a 30 anni dall’anteprima a Bari, con mostra fotografica di Ninni Panzera. In concorso, 12 titoli internazionali e una selezione italiana dei film di stagione. Accanto alle grandi retrospettive di Marco Ferreri e del produttore Franco Cristaldi, con incontri coordinati da Jean Gili, le sezioni tematiche Cinema & Scienza, Cinema & Arte, Cinema & Musica (con omaggio a Luis Bacalov), Cinema & Medicina. Al mattino, al Petruzzelli, le imperdibili lezioni di cinema, precedute da film : Pierfrancesco Favino (oggi), Pippo Baudo (domani, su Trovajoli), Micaela Ramazzotti (il 23), Antonio Albanese (il 24), Mario Martone (il 25), Margarethe von Trotta (il 26), Vittorio Storaro (il 27), Bernardo Bertolucci (il 28).