Uno spiraglio, non certo di pace, ma forse di consapevolezza politica in merito alle responsabilità di un Paese esportatore di armi, si è aperto lo scorso 30 luglio per lo Yemen, quando l’azienda Rwm Italia ha reso nota ai propri lavoratori la sospensione, per 18 mesi, delle esportazioni verso l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti dei suoi prodotti, nel rispetto della «volontà politica del parlamento e del governo».

La fabbrica sviluppa e produce, tra l’altro, bombe d’aereo, munizioni e spolette, testate per missili, siluri, mine marine e via enumerando e dispone di due stabilimenti, a Ghedi e a Domusnovas: quest’ultimo, posizionato nella regione del Sulcis-Iglesiente, è quello che vede la sospensione della produzione.

È il risultato che il coordinamento «Stop alle armi per bombardare lo Yemen», chiedeva dal 2015, poiché sono tra le forniture di bombe usate per colpire la popolazione civile in quelle tragica guerra portata avanti principalmente proprio dall’Arabia saudita e dagli Emirati.

A seguito di questa decisione il Comitato, pur esprimendo la sua soddisfazione per una decisione che avrebbe dovuto essere presa da tempo, ha però sollevato un punto la cui valenza politica va sottolineata. E cioè che il comunicato della Rwm Italia fa riferimento «agli indirizzi espressi dal parlamento con la risoluzione approvata dalla maggioranza il 26 giugno e dal Consiglio dei ministri il 12 luglio».

Il problema, è che però la decisione è stata solo riferita sui social dal viceministro del consiglio Di Maio, ma non seguita da nessun invio di un atto ufficiale, come invece il Comitato continua a sollecitare.

Quindi ci troviamo, da una parte, con un’indubbia vittoria dell’impegno di quanti si battono per un mondo senza armi, dall’altra con una decisione alla quale non si vuole dare il formalismo giuridico che le compete.

In questa vicenda si ripresentano, dunque, molti dei problemi che anche nel passato hanno costellato il cammino verso un modello di relazioni pacifiche tra i popoli, tra i quali non certo il minore è quello della relazione tra la produzione di armi e posti di lavoro.

Non a caso, ai tempi della messa al bando delle mine antiuomo, con la Convenzione di Ottawa del 1997, ratificata dall’Italia ma non dagli Stati uniti, si posero gli stessi problemi data la presenza in Italia di stabilimenti che producevano quegli ordigni.

E, ovviamente, non è un caso che certe produzioni vengano posizionate in zone decisamente povere del territorio, nelle quali la tensione tra produzione di salario e morte si presenta in modo ancora più drammatico.

D’altra parte, se questo risultato è stato possibile, lo si deve a uno schema di alleanze tra organizzazioni della società civile, ognuna con le sue specificità: Amnesty International Italia, il Comitato per la riconversione Rwm e il lavoro sostenibile, le ong Oxfam Italia e Save the Children Italia, affiancate da Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari Italia, Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo.

Questo per evidenziare che, in un momento di grande attacco alle ong di cooperazione e solidarietà ma, più in generale, verso tutte le componenti delle società civile organizzata che vogliono rivendicare il loro ruolo nella difesa dei diritti individuali e collettivi, questa vittoria va dunque bel al di là dello scopo che si era prefisso il Comitato, prefigurando una modalità di azione civile che i tempi politici che stiamo vivendo richiedono per assicurare il futuro stesso della nostra democrazia.