Una stanza d’ospedale. Una donna malata, in punto di morte. Un figlio emigrato, arrivato appena in tempo dall’estero per vederla un’ultima volta e sussurrarle: «I am a homosexual, mum». Una confessione immaginaria, che il noto scrittore keniano Binyavanga Wainaina ha descritto in un intenso racconto, pubblicato contemporaneamente dal blog Africa is a Country e dalla rivista Chimurenga Chronic, punti di riferimento di artisti e intellettuali panafricanisti, dichiarando così pubblicamente la propria omosessualità.

La scelta di Wainaina resta piuttosto isolata, in un continente in cui il clima politico non sembra propizio al coming out. In Africa molti paesi considerano l’omosessualità un reato e, con l’importante eccezione del Sudafrica, la cui costituzione post-apartheid è stata la prima al mondo a tutelare esplicitamente la diversità di orientamento sessuale, la tendenza è a un inasprimento della legislazione. Tra dicembre e febbraio, sono state approvate in Nigeria e Uganda leggi che vietano la celebrazione pubblica di unioni gay – pratica in realtà estremamente rara e non rivendicata dagli attivisti, ma ampiamente mediatizzata per alimentare l’omofobia – e comprimono ulteriormente la libertà di associazione per i militanti lgbt. In entrambi i Paesi il codice penale in vigore condannava già l’omosessualità, definita peraltro attraverso formulazioni ereditate dalla legislazione coloniale britannica. Le nuove leggi fanno però un salto di qualità nella definizione giuridica dell’omosessualità. Secondo Catherine Byaruhanga, corrispondente della Bbc da Kampala, il codice penale ugandese «non considerava reato il fatto che qualcuno si identificasse come omosessuale. Era l’atto a essere illegale». Così, in Uganda gli attivisti gay hanno sinora potuto dichiararsi senza rischiare sanzioni, anche se non per questo la loro militanza si è rivelata meno pericolosa: a cominciare dal caso di David Kato, responsabile di SMUG (Sexual Minorities Uganda), la più attiva organizzazione lgbt nel Paese, ucciso nel 2011 poco dopo la pubblicazione della sua foto sulla prima pagina di un tabloid. Con la nuova legge, continua Byaruhanga, «ciò che i parlamentari stanno cercando di fare è creare l’idea stessa di omosessualità. Una volta specificato che l’omosessualità è un male, se ne vieta poi la promozione».

In molti Paesi africani, uno degli argomenti che domina la retorica omofoba è quello per cui l’omosessualità sarebbe un fenomeno importato, estraneo alla tradizione africana. Gli studi storici e antropologici dimostrano tuttavia che pratiche omoerotiche, e identità di genere non corrispondenti alla norma eterosessuale, sarebbero state presenti e tollerate in molte società africane ben prima del colonialismo. Nella società wolof del Senegal i goor-jigeen, uomini che partecipano a celebrazioni solitamente riservate alle donne, sono in qualche modo considerati come appartenenti al mondo sociale femminile. A Mombasa e sulla costa swahili erano tollerate le relazioni tra donne più anziane, con una posizione sociale elevata, e donne più giovani. Tra gli hausa della Nigeria, nel culto di possessione bori è prevista la partecipazione degli yan daudu, uomini “effeminati” che mediano tra il mondo maschile e quello femminile. Nelle township sudafricane, sono documentate relazioni tra persone dello stesso sesso tra i sangoma, guaritori tradizionali. Se di questi esempi resta poca traccia nel dibattito attuale è perché, come osserva lo storico Marc Epprecht nel suo Heterosexual Africa? The History of an Idea from the Age of Exploration to Aids (2008), una parte dei resoconti etnografici e degli studi prodotti in epoca coloniale ha messo in secondo piano tali pratiche, consolidando al contrario l’idea di un presunto modello sociale africano patriarcale e rigidamente eterosessuale, più adatto alla morale vittoriana dei colonizzatori e alle esigenze dell’evangelizzazione missionaria.

Tuttavia, non sempre le categorie occidentali rendono giustizia alla pluralità e al valore sociale assunto da queste pratiche nei rispettivi contesti. In alcuni casi, il ruolo svolto all’interno di un sistema di credenze garantisce accettazione sociale verso persone la cui identità di genere sfida le categorie dominanti. In altri casi, invece, le relazioni tra persone dello stesso sesso ricreano una polarizzazione di genere in cui è possibile attribuire un ruolo maschile e uno femminile a ciascuno dei due partner. Come sintetizza l’antropologa Lia Viola nel suo libro Al di là del genere. Modellare i corpi nel Sud Africa urbano (2013), «in una realtà come quella delle small-town sudafricane la visione egualitaria del rapporto omosessuale occidentale sembra […] un’assurdità. È completamente altra a quel sistema, che invece pone le sue radici nell’apparente indissolubile gerarchia tra i sessi. La comunità maschile omosessuale adegua e plasma se stessa secondo il modello tollerato di relazioni eterosessuali».

Il dibattito sull’universalità delle categorie di classificazione dell’orientamento sessuale ha assunto toni anche molto aspri. Il politologo palestinese Joseph Massad, allievo di Edward Said, ha criticato l’estensione del dualismo “omo/etero” a contesti in cui il desiderio sessuale non sarebbe riconducibile a schemi occidentali, e ha duramente attaccato le organizzazioni internazionali impegnate a favore della visibilità gay: queste esporterebbero una visione inadatta ai contesti locali, specularmente all’imperialismo di alcune chiese pentecostali che promuovono l’omofobia in Africa. Questa critica chiama in causa la delicata questione della visibilità: a questo proposito Scott Long, ex-direttore del programma LGBT di Human Rights Watch, ha lanciato l’allarme in occasione dell’omicidio dell’attivista camerunese Eric Lembembe nel luglio del 2013, osservando che in molti contesti africani, data la presenza di imprenditori politici pronti a sfruttare la questione per fomentare panico morale, alle dichiarazioni pubbliche di identità gay è spesso seguita una reazione violenta.

Molte organizzazioni lgbt africane si trovano allora a occupare una difficile posizione intermedia. Per trovare sostegno e portare le proprie rivendicazioni in un’arena internazionale, non possono che utilizzare il linguaggio dell’attivismo occidentale; al tempo stesso, esse devono evitare di apparire all’opinione pubblica come agenti stranieri. Sempre Viola, in riferimento alla sua più recente ricerca su omofobia e attivismo gay in Kenya, osserva che «da un lato il coming out è ormai divenuto un desiderio diffuso, parte dell’immaginario globale e, in quanto tale, desiderabile. Dall’altro lato tra i musulmani della costa swahili la sessualità era concepita come un segreto da custodire in camera da letto (soprattutto se si parla di sessualità non normalizzata). […]Le associazioni lgbti africane con cui ho avuto modo di fare ricerca e di collaborare cercano di mediare tra le istanze globali e la violenza omofoba locale, ben consce che questa si esaspera e diviene pericolosa proprio nel momento in cui la visibilità del movimento lgbti cresce».

Pur tra simili contraddizioni, prosegue l’azione delle organizzazioni lgbt africane, in modo più prudente sul continente e più esplicito tra le comunità della diaspora in Europa e negli Stati Uniti; e continua il lavoro di una nuova generazione di accademici che studiano le questioni legate alla diversità sessuale senza pregiudizi, come la giurista ugandese Sylvia Tamale, criticata per le sue posizioni favorevoli alla tutela dei cittadini omosessuali, ma nominata prima donna rettore della facoltà di legge all’università di Makerere. Si allunga inoltre la lista di personalità pubbliche che prendono posizione a favore dei diritti dei gay: dopo Desmond Tutu, anche l’ex-presidente mozambicano Joachim Chissano, il musicista Seun Kuti, figlio del leggendario Fela, e la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie. Intanto Binyavanga Wainaina, in una sorprendente sequenza di video girati pochi giorni dopo la sua dichiarazione pubblica, ride di chi afferma che in Africa non esistono omosessuali, e conclude: «Il fatto è che noi siamo qui. Io non vado da nessuna parte, io sono qui. Quindi, fateci i conti».