Proprio nel giorno che ha preceduto la ricorrenza dell’11 marzo e i cinque anni trascorsi dal terremoto, dallo tsunami e dal pericolo nucleare, la «normalizzazione» delle centrali nucleari giapponesi voluta dal primo ministro Shinzo Abe ha subito un colpo.

La corte distrettuale di Otsu, ieri ha ordinato la chiusura di due reattori nucleari nella centrale di Takahama, nei pressi di Osaka. In realtà l’impianto aveva ottenuto il via libera dell’Agenzia della sicurezza nucleare, che su impulso di Abe aveva specificato le nuove condizioni per ridare vigore al nucleare in Giappone, nonostante le preoccupazioni di quella parte dell’opinione pubblica contraria al riavvio dei reattori. Il gestore della centrale, la Kansai Electric Power, aveva riavviato i reattori numero 3 e 4 nella prefettura di Fukui a inizio anno.

Si tratta della prima sentenza di un tribunale che si pronuncia sul merito della cautela dopo il benestare dell’Agenzia della sicurezza nucleare, e può rappresentare un intoppo per i piani del governo Abe. Nelle intenzioni del premier, infatti, c’è la progressiva riapertura delle centrali nucleari in regola con le nuove norme.

E proprio su questo ieri Abe si è espresso nel corso della conferenza stampa alla vigilia del quinto anniversario del disastro alla centrale atomica di Fukushima: «Il Giappone – ha detto – non può fare a meno dell’energia nucleare». Abe ha ricordato che il Giappone «è povero di risorse», sottolineando che «tenendo conto delle considerazioni economiche e del cambiamento climatico, non può fare a meno del nucleare, al fine di garantire una fornitura costante di energia». Si tratta di parole che tracciano una linea politica pronta a cancellare cinque anni di proteste, manifestazioni e ripensamenti.

Abe ha saputo annullare lo smacco psicologico subito dai giapponesi cinque anni fa, quando si sono scoperti inerti rispetto a calamità naturali e quando hanno scoperto che il proprio mito di paese tecnologico cadeva sotto i colpi di silenzi, omissioni e impreparazione da parte della società Tepco, responsabile della sicurezza degli impianti di Fukushima. Alle immagini desolanti di interi villaggi e città seppelliti dai detriti portati dallo tsunami, alla disperazione degli abitanti di aree completamente abbandonate e ancora oggi abitanti di immensi villaggi di container lontani da tutto, negozi, socialità e la vita precedente, mentre procede inarrestabile la «josen», la «decontaminazione» di intere aree, negli anni che sono seguiti alla tragedia di Fukushima si è sviluppato un movimento «no nuke» molto rilevante. Ma la caduta di Naoto Kan e l’arrivo al potere di Abe sembrano aver dato il classico colpo di spugna a tutto. Abe ha spinto sulla sua ricetta economica, l’Abenomics, fatta di investimenti statali e tentativo di riportare l’economia giapponese sui binari degli anni passati, quando il Giappone volava ed era un simbolo di un capitalismo capace di puntare sull’innovazione tecnologica.

Abe si è trovato di fronte un paese sgomento nel percepire a proprie spese l’arretratezza proprio sul punto forte del suo «mito», la tecnologia. Il Giappone ha compreso anche di essere un paese «vecchio», in termini anagrafici e di non avere reagito al disastro come tutti si aspettavano. Una condizione psicologica e politica sulla quale Abe ha provato a innervare un nuovo nazionalismo, politico ed economico, irretendo gli Stati uniti e altri paesi asiatici nel confronto, quasi impossibile oggi come oggi, con la Cina.

E per farlo oltre alle ricette economiche ha rinnovato il bisogno dell’energia prodotta dalle centrali nucleari.