Se l’arresto dei lavori per il South Stream, deciso dalla Russia, si inserisce nella nuova ondata di gelo avviata dalle sanzioni occidentali, tanto che al Consiglio d’Europa non escludono l’avvio di una nuova guerra fredda (come se quella in corso fosse una partita a dama), è però ancora sull’Ucraina e sui campi di battaglia del Donbass, dove si continua a morire per davvero, che la Nato persevera per il suo assedio a Mosca. All’annuncio a sorpresa sul South stream, fatto da Vladimir Putin lunedì ad Ankara, ha replicato ieri l’Alleanza atlantica.

Il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, al termine dell’assemblea dei Ministri degli esteri della Nato a Bruxelles, ha detto che è stato «deciso di mantenere una presenza costante ai limiti orientali della nostra alleanza», accrescere la capacità di risposta alle azioni della Russia, aumentare il numero dei propri consiglieri a Kiev, in relazione alla riforma della Difesa ucraina, per il quale la Nato stessa ha aperto 5 fondi fiduciari, insieme alla fornitura di 700 milioni di dollari per la difesa del suo cyberspazio.

Stoltenberg, specificando che l’alleanza non può fornire armi all’Ucraina, ha però ammesso che alcuni paesi membri – in particolare del Nord e dell’Est europeo – lo stanno facendo da tempo, tramite accordi bilaterali.

Stoltenberg ha confermato che «se la maggioranza dei cittadini ucraini, con un referendum organizzato dal governo, si esprimerà a favore della adesione alla Nato, allora verrà realmente presa in considerazione la questione», mentre lunedì scorso, alla vigilia della assemblea di Bruxelles, aveva sottolineato che la Nato non intende garantire che Ucraina e Georgia non ne entrino a far parte e si era pronunciato per l’adesione di altri Paesi alle sanzioni contro la Russia.

Poche settimane fa, nell’intervista alla tedesca Ard, Vladimir Putin aveva parlato di un «clima da guerra fredda», avviato sin dal 2001 con l’allargamento della Nato nell’Europa orientale e l’aumento delle sue basi in giro per il mondo, ma in particolare attorno alla Russia.

Ieri, il vice Ministro degli Esteri russo, Aleksej Meshkov ha dichiarato a Interfax che Mosca non considera superato il «punto di non ritorno» con la Nato, anche se l’intensa attività nei paesi baltici, con «continue manovre e voli di aerei capaci di portare ordigni nucleari, costituiscono una realtà oltremodo negativa». Non stupisce che le forze di Difesa antiaerea russe, secondo il loro comandante Golovko, nel 2014 abbiano seguito oltre 315mila velivoli sopra lo spazio aereo e cosmico russo, mentre, per la difesa delle regioni centrali, entrano in funzione i complessi missilistici C-400 Triumf e Panzir-C.

Intanto ieri a Kiev, mentre la Rada approvava la lista dei nuovi ministri e a Donetsk si tenevano colloqui tra rappresentanti della Novorossija e militari ucraini, le forze governative continuavano a rafforzare le proprie posizioni, proprio sulla linea del fronte attorno a Donetsk.

E se l’Osce riferiva che i rappresentanti della Repubblica di Lugansk e dell’esercito ucraino si erano accordati sul cessate il fuoco a partire dal prossimo 5 dicembre e sull’arretramento di 15-20 km delle artiglierie pesanti dal 6 dicembre, cionondimeno, le artiglierie di Kiev hanno continuato anche ieri a bersagliare le posizioni avversarie, causando ancora morti e feriti tra i civili.

A parere del politologo ucraino Vladimir Skachko, direttore del Kievsky Telegraph, tutto quello che Kiev è in grado di proporre – lingua russa, autonomia economica – Donetsk e Lugansk se lo sono già assicurate di fatto, armi alla mano». E, pochi giorni fa, RIA Novosti scriveva che Kiev «promette di cessare il fuoco, ma continua i bombardamenti. Assicura che la regione avrà più autonomia, ma poi si adopera per il blocco economico».

Alla Direzione Onu per le questioni umanitarie – che ha fissato in oltre 600 i morti nel solo mese di novembre; la cifra complessiva delle vittime del conflitto al 25 era di 4.356 morti – si sono detti «profondamente preoccupati» per la chiusura di tutti gli uffici pubblici nel Donbass dal 1 dicembre.

Il «Blocco di opposizione», l’unico partito non di destra alla Rada, si è rivolto alla Corte costituzionale in relazione al blocco industriale, finanziario e di assistenza sociale e pensionistica nel Donbass, decretato da Poroshenko e che rischia di portare alla fame gli oltre 5 milioni di persone che vivono nelle zone del conflitto.