Victor Stoichita, foto Giorgia Fiorio

 

«Il Mar Nero in realtà non è nero». Di questi tempi prende d’amaro la frase (o lo slogan, piuttosto) di Victor Ieronim Stoichita, traboccante tenerezza e orgoglio nel ricordo dei paradisi infantili, non verdi bensì «tra il blu e il turchese», delle estati passate fra Cluj e Costanza, negli anni cinquanta e sessanta. Oggi, che l’altra sponda del Ponto Eusino di nuovo s’annera di bombardieri, nell’olezzo mostruoso dei carnai.
Ma in fondo questa sorte a contraggenio è la sigla più giusta per un libro double face quale, al di là delle apparenze, si rivela questo primo volume delle sue memorie, Ritorno a Bucarest (pp. 280, euro 24,00, editore Bordeaux), programmaticamente agli antipodi rispetto alle querimonie della «letteratura della memoria scritta dopo la caduta del Muro» (come Stoichita ci raccontò tre anni fa su queste pagine). Il tono che prevale è infatti quello affettuoso di una «fotografia, o piuttosto film, in bianco e nero» (nella copertina dell’edizione originale, uscita nel ’14 da Actes Sud, figura appunto una vecchia macchina fotografica), alternato con frizzi quasi da commedia all’italiana, a ritrarre usanze e leggende del gineceo dominante la kommunalka nella quale i due rami della sua famiglia, per un totale di dieci personalità tutte spiccate, si trovarono lungamente a convivere a Bucarest, in pochi metri quadri, dopo l’esproprio seguito alle condanne per devianza politica del nonno materno, illustre medico e scrittore di «romanzi dostoevskiani», e dello zio paterno ingegnere e «nemico del popolo», oltretutto di sangue blu.
Ma il partito preso tonale non può dissimulare del tutto l’angoscia per quelle sparizioni protratte (per quattro anni il primo, per tredici il secondo); e lampeggia ancor più traumatica, così, la scena primaria di quando nell’estate del ’53 la Securitate fa irruzione nella casa di Cluj, preleva il nonno dostoevskiano e si carica sul camion mobili quadri libri e pianoforte: allorché il piccolo Victor, quattro anni, e il fratello maggiore Adrian, futuro musicista, trovano rifugio nella cuccia del cane Lupu, nascosti sotto la sua soffice massa pelosa. Passata la tempesta, la madre Ada e la matriarca Omama (al secolo nonna Agripina) garantiscono solenni che «tutto andrà a posto». Ma «nulla andò a posto», invece. Lo sguardo angosciato, in quell’«enorme campo di concentramento» in cui per gradi si trasforma la Romania in un interminabile dopoguerra, è sempre sotteso a quello ironico di superficie (un po’ come negli inquietanti autoritratti premonitori, con l’«occhio lacerato», del grande dada romeno Victor Brauner omaggiato dalla copertina italiana).
È un occhio segreto, come il «grande occhio spalancato» scoperto durante le immersioni estasianti nel Ponto, un enigmatico singolo occhio dalle «lunghe ciglia nere e la pupilla abitata da un punto bianco», che ammicca da un frammento di ceramica rossa di un vaso in frantumi in fondo al mare: profezia di una vita consacrata alla scienza della vista, e appunto all’occhio culmine del corpo umano secondo l’Andrea Vesalio sul quale faceva lezioni d’anatomia, in carcere, il nonno medico.
Al di là dell’interesse «documentario» per le notizie sulla formazione remota di uno dei massimi storici dell’arte viventi (più ricco è dato prevedere in tal senso il secondo volume, in corso di elaborazione, sugli anni seguenti passati a Roma alla corte di Cesare Brandi), il libro si legge con piacere proprio per l’alternanza dei toni: alla coltre lato sensu proustiana – evidenziata dal titolo, simmetrico rispetto all’Oublier Bucarest dell’originale – e all’ironia sottile, che s’apre spesso in un’allegria quasi picaresca (come quando il ragazzo Victor, coatto allo studio del violino, quasi decide di unirsi ai carri sgangherati degli Zingari – die Zigeuner, aborriti dalla classista Agripina –, a prefigurare i vagabondaggi del clericus a venire), spesso si giustappone un sorriso più a denti stretti, da teatro dell’assurdo, «assolutamente degno del paese che ha dato i natali al dadaismo». Per esempio quando dello «zio Octav», imperscrutabile pecora nera della famiglia per l’indefessa fedeltà al bolscevismo, si riporta senza commenti una lettera che implora al «Compagno Ministro» una lampadina con qualche watt in più, nell’auletta dell’Istituto Pedagogico dove perde il lume degli occhi per far lezione sull’amato Aristotele (ma alla fine gli regalerà L’ironie di Jankélévitch: «c’est un très bon livre»); o quando a un certo punto Victor, ormai brillante matricola di storia dell’arte che – profittando della «primavera di Bucarest», cioè delle relative quanto strumentali aperture fatte da Ceausescu fra il ’65 e il ’72 – ha fatto domanda per una borsa di studio all’estero (e nel frattempo fa il cicerone al Museo di Costanza, nei suoi «lavori patriottici volontari obbligatori»), viene convocato dal «compagno Costel» della Securitate che lungamente lo inquisisce coi suoi atoni occhi grigi e infine, in cambio del visto sospirato, gli chiede di spiare gli altri espatriandi. Victor si tortura tutta la notte ma infine declina l’offerta, certo che questo gli costerà la Grande Occasione («Pensa a Roma, pensa alla bella Italia!») e lo condannerà a passare il resto della vita, se gli andrà bene, in «un borgo del Baragan a insegnare disegno e costretto a trasmettere a dei bambini le leggi del realismo socialista». E invece, miracolo non meno assurdo, il visto si materializza: tempo tre giorni e potrà finalmente spiccare il volo dall’aeroporto di Baneasa.
Il libro si conclude col clic della cintura di sicurezza: quello che Brandi chiamerà «il nostro Ovidio» farà il viaggio in senso opposto a quello che duemila anni prima tanto aveva aduggiato l’autore dei Tristia (Stoichita ne approfitta, si diceva, per smentire la cupa quanto fantastica meteorologia delle Epistulæ ex Ponto, le classiche leggende nere di Tomi e della feroce Medea).
Ma se non tanto in senso metodologico, come si diceva, di Ritorno a Bucarest è prezioso l’insight sulla psicologia, di questo grande maestro. La kommunalka di Bucarest, in cui nonna Agripina arrotonda facendo lezioni di piano e di tedesco contemporaneamente, risuona sempre di musica. E vagheggiate sono le arie d’opera italiane che la famiglia ordinatamente si mette in fila per andare a sentire all’Opera di Stato, attraversando a piedi tutta la città (quando Mimì risorge per raccogliere gli applausi al proscenio, Victor scopre inganni e delizie di qualcosa di cui non aveva mai sospettato l’esistenza, la «finzione»). Soprattutto una, Un bel dì vedremo. La torturante e «irragionevole speranza» di Butterfly è rivolta all’«estremo confine del mare»: tutta tesa a quello che in romeno si chiama dincolo, «dall’altra parte» del Ponto dove occhieggia, infinitamente attirante nonché inquietante, la magherìa dell’aperto. I confini invisibili – dei quali Victor ha letto nello storico antico Ernst Kornemann – sono molto più difficili da valicare di quelli fisici delle cortine di ferro, perché ce li portiamo in testa (come il grande storico delle religioni Culianu – di cui chissà perché si tace il nome – destinato a cupa sorte anche dopo essere volato dincolo…). L’orizzonte Victor lo scopre a cinque anni; chiede alla madre «possiamo andarci? Vorrei tanto vederlo più da vicino». Impossibile: «più ti avvicini, più si allontana».
Non stupisce allora che, più di quarant’anni dopo, il libro mirabile che a Stoichita darà una fama tanto improvvisa quanto indiscussa, L’invenzione del quadro, sarà dedicato a quella tradizione della pittura in cui, dentro l’immagine di una chiusura, si apre una finestra che dà accesso, almeno virtuale, a un altro ambiente. I veri confini sono invisibili, è vero, ma agli occhi è consentito vedere varchi che si possono attraversare.