«La differenza esiste, l’alterità si costruisce». Da questo motto quasi araldico prende le mosse l’introduzione di Victor I. Stoichita alla serie di conferenze da lui tenute a Parigi nel 2014, la cosiddetta «Cattedra del Louvre», pubblicate ora col titolo L’immagine dell’Altro Neri, giudei, musulmani e gitani nella pittura occidentale dell’Età moderna (a cura di Lucia Corrain, traduzione di Benedetta Sforza, La casa Usher, pp. 175 con 77 ill. a colori f.t., euro 29,00) nella bella collana «I libri di Omar» (non è un’allusione esotica, bensì il ricordo del compianto Omar Calabrese: coetaneo di Stoichita prematuramente scomparso nel 2012, era lui il principale esponente italiano della semiotica dell’arte di marca «francese»; un suo libro non meno precoce, La macchina della pittura pubblicato da Laterza nel 1985, è stato ripreso in questa serie – accompagnato da scritti di Lucia Corrain, Tarcisio Lancioni e dello stesso Stoichita – appunto alla fine del ’12). Volendo così a un tempo riallacciarsi alla tradizione di studi fondata negli anni settanta dal seminale Orientalismo di Edward Said, ma anche in parte smarcarsene richiamandosi all’antropologia più recente (per esempio di Eduardo Viveiros de Castro): perché se è vero che «l’altro non esiste in assenza dello stesso», ed è in effetti una sua proiezione culturale, il «differente» esiste davvero, e postmodernisticamente negarlo è illusione altrettanto ingannevole di quella ingenuamente simmetrica.
Stoichita richiama al riguardo il pensiero di Lévinas sull’«incontro» faccia a faccia col «volto dell’altro»; e si pensa subito a quello celebre, nel 1480, di Gentile Bellini col «Gran Turco» Maometto II (oggi alla National Gallery di Londra), tale che – ricorda Vasari – «pareva questo più tosto miracolo che arte».
Più in generale, L’immagine dell’Altro è dedicato al costituirsi dell’identità europea attraverso lo sguardo rivolto sull’altro da sé: a come in tal modo si formi, questa identità, ma anche a come muti nel tempo. Due facce della stessa medaglia, come dimostrano due figurazioni di Caravaggio, il Narciso di Palazzo Barberini (per antonomasia figurazione del falso altro speculare del narcisismo, appunto, la cui autografia è oggi contestata: ma qui non importa perché, se pure non l’ha dipinto lui, funziona in effetti come epitome del suo stile) e La buona ventura (due versioni, alla Pinacoteca Capitolina e al Louvre). Se la prima pare un’illustrazione della leggenda di Leon Battista Alberti («quel Narcisso convertito in fiore essere stato della pittura l’inventore»), la seconda viene citata da Giovanni Pietro Bellori, nella sua «Vita di Caravaggio», come esempio del suo anticanonico «proporsi la sola Natura per oggetto del suo pennello».
L’incontro del giovane uomo con la «Zingana» (o «Zinghera», a seconda delle fonti), col suo ineffabile gioco di sguardi (e di mani), è dunque l’incontro per antonomasia: col diverso dalla tradizione. Intriga il nostro sguardo, il quadro, almeno quanto s’intrigano a vicenda i suoi protagonisti (al punto che i commentatori del tempo, come Giulio Mancini, descrivono un furto, dell’anello del giovane da parte dell’indovina, che nel quadro in effetti non c’è: illusione ottica derivante dal contesto di altre scene caravaggesche – come l’acrobatico I bari di Fort Worth – e dalle riprese dei suoi seguaci – come l’ancora più prestidigitatorio de la Tour del Metropolitan, col solito gentiluomo che, a dispetto dello sguardo diffidente, si fa derubare addirittura due volte). Illusionista lei, ma illusionista pure il pittore: strutturalmente diverso, e per questo disprezzato e mitologizzato, è insomma Caravaggio ovvero, sintetizza Stoichita, l’«inventore di una pittura zingara».
È un esempio perfetto dello stile analitico del grande maestro rumeno: anche a cospetto di un repertorio che (com’è evidente, e dichiarato) lo interpella in prima persona. Una vita raminga, la sua, da vero clericus vacans: dopo la laurea alla «Sapienza», nei primi anni settanta con Cesare Brandi, un secondo apprendistato lo vede a Monaco, alla corte di Hans Belting. Poi l’incontro a Parigi con la scuola di Louis Marin, al fianco di compagni notevoli come Hubert Damisch, Daniel Arasse e appunto Calabrese. Infine l’approdo a Friburgo, in Svizzera, dove Stoichita ha insegnato sino a quest’anno. Prossimamente un’ampia intervista, su queste pagine, ricostruirà il puzzle di lingue, culture, tradizioni interpretative ed esperienze di vita che corrisponde alla sua firma prestigiosa.
Le fonti storiche, che specie riguardo ai neri d’oltremare e oltroceano (disinvolto Stoichita li chiama «negri», anzi, seguendo la terminologia del tempo) costruiscono l’alterità per giustificarne la forzata civilizzazione, ossia l’assimilazione ai parametri europei (e non importa se l’«altro», all’uopo, tocchi «civilizzarlo» a morte), sono convocate con ricchissima accuratezza, ma è sempre all’interno della rappresentazione che l’interprete cerca le conferme, o le smentite, ai paradigmi culturali che la sottendono. Emblematica la rappresentazione dell’Ebreo, per esempio, nella Cappella degli Scrovegni: proprio perché «nessuna particolare caratteristica visibile» lo differenzia dal resto della popolazione, nella tradizione dell’Ultima Cena occorrerà isolarlo, Giuda, di volta in volta mercè la posizione, il colore della pelle, l’abbigliamento; invece Giotto lo presenta, nelle tre scene in cui lo coinvolge, ogni volta diverso: «è sempre qualcun altro», perché in effetti «lui è sempre l’altro».
È indicativo del temperamento del suo autore il fatto che il saggio fermi i suoi passi alla fine del Settecento: dunque prima della fase più «scientifica», e insieme più sanguinaria, dell’appropriazione dell’altro da parte del colonialismo europeo. La koinè illuminista, viceversa, produce gli esempi più memorabili di esaltazione della differenza. Il celebre Ritratto del cittadino Jean-Baptiste Belley di Girodet, coll’ex schiavo senegalese dal 1793 fiero membro della Convenzione, oppure lo splendido Ritratto di negra di Marie-Guillemine Benoist, ripresa provocatoria della Fornarina di Raffaello presentata al Salon del 1800 (e posta in copertina), sono icone programmatiche: in una «finestra» tanto breve quanto luminosa, è il caso di dire, in cui fra il 1794 e il 1802, in Francia, la schiavitù viene abolita per decreto.
La storia più bella Stoichita la preleva da un romanzo alessandrino amatissimo da Tasso e Cervantes, le Etiopiche di Eliodoro di Emesa. I re neri d’Etiopia, Persina e Idaspe, danno alla luce la bella Cariclea, che però nasce scandalosamente bianca (e pure bionda). È successo che all’atto del concepimento (nel Seicento audacemente raffigurato da Karel van Mander III, discendente dell’omonimo autore dello Schilder-Boeck, equivalente nord-europeo delle vasariane) la regina contemplava un quadro raffigurante Andromeda, e secondo la credenza del tempo questa immagine aveva influito sul comporsi della nuova vita. Così la regina, per evitare l’accusa di adulterio, deve abbandonare la bambina a Delfi. Quando, dopo alessandrine peripezie, Cariclea torna in Etiopia e sta per essere sacrificata al dio Sole, il vecchio sacerdote Sisimitre, che sa tutta la storia, le scopre un braccio sul quale splende «un cerchio d’ebano che macchiava il suo braccio d’avorio»: segno che decreta il suo riconoscimento, e il lieto fine.
Se la storia del concepimento per interposta icona («inseminazione immaginaria», la chiama Stoichita) verrà ripresa da un formidabile episodio dell’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, la macchia che rivela l’origine è, a sua volta, all’origine della Macchia umana di Philip Roth. Ma soprattutto – conclude Stoichita con un sorriso – i lettori di Eliodoro dovevano ben sapere che anche Andromeda, a dispetto di come la ritrarranno i pittori europei, era in realtà una principessa etiope: e nel Quarto Libro delle Metamorfosi di Ovidio, in verità, non è specificato di quale colore fosse la sua pelle. È proprio vero che alla fine del viaggio «al ritorno dall’altro nessuno è più, irrevocabilmente, lo stesso».