Da cinquant’anni la cultura artistica contemporanea propone un tipico menu, globale: piatti freddi, ottici e minimali (il concettuale) o pietanze Body, citazioniste e neobarocche (il postmoderno). Vie di scampo? Fino al 31 dicembre 2013 Palazzo Grassi, a Venezia, è interamente occupato da un site specific che porta la firma del suo autore, Rudolf Stingel. Un tappeto di cinquemila mq fra atrio, primo piano e secondo, ogni centimetro del pavimento e delle pareti. Percorrendolo, si capisce che l’arte è ancora un’esplorazione dei sensi. Non lo è, necessariamente, se sfoggia operazioni chirurgiche e trucchi facciali. Può attenzionare capacità sinestesiche dell’uomo a prescindere dalla rappresentazione del corpo oggetto e soggetto.

La mostra, curata da Stingel ed Elena Geuna, trasforma l’impressione percettiva dello spazio. Gli interni in marmo e gesso armato dell’architettura neoclassica, valorizzati dal restauro di Tadao Ando, sono rivestiti di fili di lana sui toni tricolore del blu, bianco e rosso, orditi e intrecciati secondo un pattern persiano, a intarsi geometrico floreali. Questo ordine ritmico, prodotto in serie e veicolato su scala macroscopica, in altezza (Wandteppich: tappeto verticale, a parete) e lunghezza (Fußteppich: tappeto orizzontale, a pavimento), unifica la foggia delle stanze e discretizza invece i transiti: corridoi, vestiboli, finestre. La stanzialità del museo cede il passo a un’erranza immersiva per il visitatore. Ci muoviamo avvolti da stoffe fonoassorbenti, disorientati come dentro un labirinto. Eudossia (Calvino), la città invisibile da interrogare attraverso un tappeto, logoro. «Tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andirivieni dal brulichio dal pigia pigia».

Al primo piano Stingel colloca, sparsi, alcuni dipinti. Oli e smalti su tela, in monocromo argento, adiuvanti nel percorso. Qui il motivo ornamentale è sostituito da retini a losanghe o traspare sotto pennellate pluridirezionali e piegature del tessuto pittorico. I quadri sembrano convertire in visione aptica la percezione, tattile e sonora, del contatto ovattato con la moquette. Un’esperienza rara di «realtà aumentata», fruibile con i nostri comuni sensori. L’enorme tappeto trascende l’apparente bidimensionalità della pittura e a essa torna per essere riconosciuto.

L’artista di Merano è aduso all’impiego di mediazioni che restituiscano l’identità della pittura – forze del gesto e reazioni delle materie. Si veda il suo manuale di Istruzioni (1989), ricettario in più lingue dove la pittura diventa pensabile perché campo di un saper fare da condividere: si filtra con il tulle, si frulla con il Moulinex. Nel figurare questa pratica Stingel ha già adoperato la moquette in verticale (sezione Aperto, Biennale 1993) e, nelle sedi della Fondazione Pinault, il celotex (in Where are we going?, 2006), il tappeto (in Sequence 1, 2007), poi pannelli di polistirolo (in Mapping the Studio, 2009). Compie in pittura lo stesso movimento di dis-astrazione e concretizzazione che Franz West ha attuato nella scultura. Ritrovare lo spessore del mondo.

L’omaggio di Stingel al maestro austriaco – il suo ritratto dipinto su tela con la tecnica del fotorealismo – è il grimaldello per leggere le opere del secondo piano.

Salendo le scale, si incontrano quadri di piccole dimensioni raffiguranti statue lignee gotiche, creati a partire da foto in bianco e nero. Sono oli e smalti su lino il cui trait d’union è il trattamento dei panneggi scultorei a parvenza antica, effetto del chiaroscuro. Stingel trasferisce i principi del tuttotondo nel medium fotografico e li sussume entrambi nella sfera della pittura. Con il pennello, infatti, interviene a sfocarli e a sovrapporvi ornamenti di propria ideazione. Traduce le altre semiotiche – scultura e fotografia – in modo retorico, come conflitto contrappuntistico (Lotman). Quale universo di valori intercetta?

Dal 1951 alla fine degli anni Settanta Palazzo Grassi è stato sede del Centro internazionale delle arti e del costume, promosso da Franco Marinotti, presidente della Snia Viscosa. Lucio Fontana, nel corso della mostra Dalla natura all’arte (Biennale 1960), vi ha realizzato l’ambiente spaziale Esaltazione di una forma, proiettando un gioco di fari rossi su un reticolo di tessuti della Snia, per ottenere un gigantesco dazzle pattern. Oggi un tappeto invecchiato e le vestigia di quadretti plastici evocano quell’epoca, ma rimpiazzando l’artigianato a mano con una moquette industriale. Un’allegoria di Venezia? È sottile l’insinuazione di Stingel. Adattiamo sempre il nuovo all’antico, secondo le mutate abitudini. Ma a Venezia la reinvenzione della tradizione arriva a contraffare l’usura.